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Dopo le armi, l’aborto: la Corte incendia un’America frantumata

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Emerge una visione della Costituzione non come documento vivo, ma come monumento da preservare intatto nell'interpretazione originaria. Nessuno spazio dunque a chi vuole riformare il paese fuori dai confini stabiliti dai Padri Fondatori

di Andrea Molle

È proprio il caso di dirlo senza mezzi termini: la Corte Suprema degli Stati Uniti (SCOTUS) getta benzina sul fuoco delle tensioni sociali. Con una maggioranza granitica di sei contro tre giudici costituzionali, la Corte invia alla politica un messaggio molto chiaro già anticipato nelle parole dei giudici conservatori al momento della loro conferma al seggio più alto della magistratura americana: la Costituzione non è un documento vivo, che si addatta ai tempi e che va interpretato con la sensibilità del mondo moderno, ma è un monumento da preservare intatto nel pieno dell’interpretazione del legislatore originale. Nessuno spazio dunque a chi vuole riformare il paese fuori dai confini stabiliti dai Padri Fondatori, o almeno della loro interpretazioni agli occhi dei giudici.

Sono due i pareri che con una visione estremamente circoscritta della Costituzione si abbattono come un macigno sull’America. Nel primo, che ha visto lo Stato di New York contro le organizzazioni di cittadini possessori di armi da fuoco, l’Alta Corte ha stabilito che la Carta non ammette che gli Stati limitino il secondo emendamento, obbligando le persone a giustificare la necessità del porto d’armi al momento della domanda. L’accesso alle armi e il porto personale al di fuori dell’abitazione sono un diritto costituzionale, senza sè e senza ma. Da oggi dunque, gli Stati che contavano sulla propria discrezionalità al fine di vietare de facto ai cittadini di armarsi se non in casi molto estremi non potranno più farlo. Almeno apertamente e nei modi impiegati fino ad ora non solo dallo Stato di New York, ma anche dalla California o dalle Hawaii che negli anni hanno concesso solo poche decine di permessi. Quello che preoccupa è che la Corte Suprema ha ricevuto molte altre richieste di giudizio su temi legati alle armi, inclusi alcuni provvedimenti molto simili all’appena approvato provvedimento di legge bipartisan che impone severe limitazioni all’acquisto. Ed è altamente probabile che questi pareri abbiano lo stesso esito di quello approvato pochi giorni fa. Molti vedono dunque in questa sentenza un ritorno al passato, quando non esisteva alcuna regolamentazione sulle armi e l’inizio di una battaglia più ampia attorno al controverso articolo della Costituzione americana.

Con la stessa logica letteralista, la Corte ha anche stabilito che i Padri Fondatori non hanno incluso l’aborto tra i diritti dei cittadini americani. Ciò non si traduce in una messa al bando, come spesso si usa semplificare, ma con l’affermazione che l’aborto non gode di alcuna tutela federale. La decisione, per altro già annunciata alcune settimane fa, ribalta comunque decenni di giurisprudenza in merito all’interruzione volontaria di gravidanza. SCOTUS ha rimandato la battaglia agli Stati, molti dei quali hanno già approvato da tempo provvedimenti legislativi cosiddetti kill switch e cioè norme disegnate per mettere automaticamente fuorilegge l’aborto in caso di una sentenza come quella appena pubblicata. Anche in questo caso c’è chi vede nel parere della Corte un segnale chiaro sul tema della salute, che mette una pesante ipoteca non solo sui tentativi di riformare il sistema in chiave universalistica, ma sulla stessa sopravvivenza di Obamacare.

In ambo i casi, i due pareri impongono agli Stati di mettere mano alla propria legislazione all’interno di un quadro giuridico sempre più rigido, che sta ridefinendo i rapporti di sussidiarità tra le amministrazioni locali e il governo federale. Se all’atto pratico cambia poco, in quanto gli Stati Democratici continueranno come prima a tutelare l’aborto e legiferare per limitare la portata del secondo emendamento, mentre quelli Repubblicani faranno l’esatto contrario, le ripercussioni sulla stabilità della società americana si faranno sentire. Quello che deve davvero oggi preoccupare è infatti l’incremento del conflitto sociale e della polarizzazione che porterà non solo a un ulteriore allontanamento delle posizioni politiche, con l’ovvia conseguenza di limitare le possibilità di accordi bipartisan, ma anche a una prevedibile stagione di proteste, purtroppo quasi sicuramente violente.

Mentre in America si apre dunque quella che molti osservatori definiscono come una riot season, la palla passa ora al Presidente Joe Biden. L’amministrazione Democratica, che fino a oggi si è limitata a criticare aspramente la Corte, sa bene che i giudici costituzionali hanno il potere e tutta l’intenzione di bloccare ogni possibile riforma su qualunque tema che sia anche minimamente deviante rispetto alla lettera della Carta scritta dai Padri Fondatori. Washington è dunque di fronte a una scelta impossibile: accettare di limitare l’impatto del governo federale tornando all’America degli Stati, con conseguenze potenzialmente devastanti sull’efficacia dell’azione politica domestica e internazionale degli Stati Uniti vista la crescente distanza tra Stati Democratici e Stati Repubblicani, o giocarsi il tutto e per tutto in una battaglia aperta contro la Corte Suprema.

Tuttavia quest’ultima opzione è forse peggio del male stesso, perché sarebbe una vera e propria dichiarazione di guerra. Fino a che i Democratici conservano la maggioranza al Senato, e cioè prevedibilmente solo fino alle elezioni di Novembre, Biden ha il potere di espandere il numero dei giudici della Corte Suprema, inserendo persone di orientamento democratico e ribaltando l’attuale maggioranza. Un’opzione nucleare che però porterebbe molto probabilmente a proteste di piazza se non vere e proprie rivolte e finirebbe per sancire la fine di quella rigida separazione dei poteri tanto cara ad Alexis de Tocqueville che tutti considerano il tesoro della democrazia americana. Inoltre, aprirebbe la strada alla rimonta del fronte estremista Repubblicano guidato da Donald Trump che ha da poco annunciato la propria intenzione a ricandidarsi alle vicine elezioni presidenziali del 2024.

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