di Alessandro De Angelis

 

Le parole chiave: deserto e suicidio. Deserto, inteso come partecipazione. Perché va bene il caldo, la domenica di fine giugno, il mare o i monti. E va bene anche che, da sempre, ai ballottaggi vota sempre meno gente rispetto al primo turno (il che, normalmente, aiuta la sinistra). Però quando vota un italiano su tre anche l’astensionismo è un dato iper-politico, che certifica la sfiducia verso l’esercizio stesso della sovranità popolare, la sua utilità nell’Italia in cui si vota poco, e anche la scarsa capacità di coinvolgimento e mobilitazione dei partiti (in questo caso del centrodestra). Non è una novità, ma comunque le percentuali di partecipazione suggeriscono comunque grande prudenza nel considerare la tornata come un anticipo delle politiche. O come un test nazionale.

Suicidio è la parola tecnicamente corretta per raccontare la sconfitta del centrodestra che se possibile, nelle principali città al voto, ha sbagliato tutto, dimostrando che la coalizione a trazione populista ha un clamoroso problema di classe dirigente. Ed ha perso soprattutto perché avvitato in dinamiche da strapaese nelle principali città al voto che della politica attestano solo la decadenza: a Verona, il caso più clamoroso, l’uscente di Fratelli d’Italia che rifiuta l’apparentamento con Tosi per questioni pregressi verso la di lui consorte (Bisinella), con i leader nazionali che nemmeno si presentano capita l’aria; a Catanzaro il centrodestra sceglie un candidato che viene dal Pd (senza il sostegno di Meloni) e al secondo turno perde l’appoggio di un pezzo di Forza Italia per beghe di partito; a Parma dove non funziona il ritorno di Vignali che, anche in quel caso non era sostenuto da tutta la coalizione.

A conti fatti. Delle 13 città al voto, solo due erano del centrosinistra (Cuneo e Lucca). Finisce col centrosinistra a quota 8, comprese Piacenza, Alessandria, Monza, dato non banale perché, sommata a Lodi, segnala uno scricchiolio nella Brianza. È chiaro, il centrosinistra gioisce. Giustamente. Diciamoci le cose come stanno: il risultato è una vittoria politica, e soprattutto una sconfitta del centrodestra che, come coalizione non esiste più né a livello nazionale e sempre meno anche a livello locale. Ma non un plebiscito sociale, reso possibile dal fatto che il centrodestra non è riuscito a riportare al voto, forse anche perché lo strapaese non ha appassionato nessuno, il suo elettorato.

Le elezioni politiche sono un’altra cosa. Ma è anche vero che il disastro a valle è figlio di un qualcosa che si è inceppato a monte. Non è colpa del destino cinico e baro il disastro di Michetti a Roma, di Bernando a Torino e oggi di Sboarina. È figlio di una coalizione che funziona solo quando intercetta una spinta populista, di rabbia e protesta, ma dove ormai i leader non riescono più neanche a parlare a telefono per far ragionare i loro candidati e sono saltati i meccanismi fisiologici di selezione e scelta della classe dirigente.

E diciamoci le cose come stanno: è una vittoria del Pd, non una conferma del “campo largo”, anche perché i Cinque stelle non sono determinanti da nessuna parte. Anzi, se possibile è il superamento del “campo largo” e la conferma che lo schema funziona quando il Pd quel campo lo “invade” andando a cercare i voti a uno a uno, senza esternalizzare ad altri il rapporto col popolo.
Il primo turno lo vinse il centrodestra, con Genova e Palermo. Il secondo il centrosinistra. Non cerchiamo indicazioni per le politiche, se non forse, tra la novità più interessanti, un certo risveglio del civismo che per il centrosinistra può essere una nuova ipotesi di lavoro per uscire dal suo strapaese tra Conte e Di Maio. Ma nessuna delle due coalizioni, nonostante tutto, al momento è pronta a rappresentare una credibile offerta di governo. In attesa del risveglio della partecipazione, delle sue modalità (rabbiose?), e di chi saprà intercettarlo.