di Alessandro De Angelis

Calma e gesso, quando c’è una crisi. Sarebbe stato bizzarro (e anche grave) se un severo e fedele custode della Costituzione come Sergio Mattarella, davanti a un presidente del Consiglio che comunque ha incassato una fiducia, avesse sciolto le Camere di fronte alle sue dimissioni senza una verifica parlamentare. E sarebbe stato altrettanto stupefacente se Mario Draghi, non avesse scelto di drammatizzare, di fronte allo spettacolo andato in scena nell’Aula del Senato, comportandosi come se nulla fosse: il partito di maggioranza relativa non vota la fiducia al governo di cui fa parte, un clima di verifica permanente, gli animal spirit di una campagna elettorale che si sono manifestati in tutto il loro fragore.

Ignorare tutto questo avrebbe dato il segno di una fragilità politica e di una passiva accettazione di una situazione da governo balneare come i peggiori pastrocchi della Prima Repubblica, esposto ai marosi dell’ingovernabilità. Memore della lezione del Quirinale – fulgido esempio di come tagliare le ali a un volo ambizioso a lungo desiderato – Draghi ha messo il peso delle sue dimissioni sul tavolo. È al tempo stesso una mossa di serietà che rivela una sincera stanchezza, preannunciata da un comunicato di rara durezza, di un uomo che, per indole e caratura, non può rimanere a tutte le condizioni. Stanco, in un momento cruciale del paese, di veder precipitare le convulsioni di questo o quel partito sull’operato del governo. Dove è iniziato il logoramento dei logorati dal minuto dopo le amministrative tra minacce di sfracelli a Pontida e papelli di una improbabile trattativa, che in verità sono pretesti per allontanarsi dal governo, tra l’evocazione del voto da parte della Lega anche in Aula e un’Aventino che ha lo stesso sapore elettorale. Insomma, la presa d’atto che il governo da lui guidato non c’è più – politicamente, non numericamente - perché un governo, nato su impulso del presidente della Repubblica per affrontare le emergenze o è una assunzione di responsabilità di tutti o non può andare avanti se non ci sono le condizioni di operatività.

Ma la mossa è anche, nei suoi effetti, un gesto di chi, consapevole della posta in gioco, imprime un’ultima ed estrema pressione ambientale al sistema politico, per le sue ricadute in termini di ricadute economiche, internazionali, di credibilità dell’Italia all’estero, anticipate dallo sconcerto delle cancellerie europee e dalla flessione della borsa. Che carica una responsabilità enorme sulle spalle di chi ha in animus di affossare questa esperienza e produrrà, dentro i partiti che giocano col fuoco una dialettica. Perché è chiaro: l’alternativa a Draghi sono le elezioni, ovvero, al netto delle chiacchiere, un costo enorme per il paese. La guerra, con le sue ricadute economiche, la pandemia, l’inflazione, il Pnrr a ramengo, la crisi sociale preannunciata dal rapporto dell’Istat: il prezzo di un non governo in questa fase è la tassa più costosa che i cantori dell’ingovernabilità scaricano sul paese. C’è un motivo se, in tutta la storia repubblicana, non si è mai votato ad ottobre, in piena sessione di bilancio, che ha incorporato il rischio di non riuscire a varare nemmeno la finanziaria. In una parola: il caos, con i responsabili scritti in calce che dovranno spiegarlo nei comizi elettorali.

Proprio la vicenda del Quirinale insegna che, per conseguire un obiettivo, è opportuno negarlo, piuttosto che cercare l’altrui disponibilità. Le dimissioni sono cioè anche un modo per recuperare una terzietà, in nome di una missione per il paese, affogata nella melassa politicante dei segnali dati e ricevuti alle forze politiche, negli incontri diurni e nei penultimatum notturni. Quello che è andato in scena oggi al Senato è un nuovo capitolo del clamoroso fallimento della politica - sia pur ripartito secondo responsabilità diverse - avvitata in un delirio autoreferenziale svincolato dalle priorità del paese. Draghi, che finora si è assimilato oltre i limiti del consentito, ha detto basta. E nel gesto c’è la fine con denuncia incorporata, se non ci saranno plateali, coerenti e fulgidi esempi di resipiscenza o un potenziale nuovo inizio, se l’appuntamento di mercoledì rappresenterà una Canossa dei riottosi. Un brusco richiamo al principio di realtà. Fanno sapere dal Quirinale che sarà scelta esclusiva del premier se mettere un voto sulle sue comunicazioni o se tirare le somme ascoltato il dibattito. Se va come ieri, tra richieste di verifica ed evocazioni del voto, è game over e non è escluso che, nel piano inclinato lungo cui è iniziato lo scivolo, in molti lo vivano come un momento liberatorio. Altrimenti ci sarà un finale ordinato della legislatura più disordinata del mondo.