Giuseppe Conte

di Sara Gentile

La scena politica italiana delle ultime settimane sembra una giostra, a tratti surreale, popolata da fantini stanchi che cavalcano cavalli malmessi, riottosi, con voci, dichiarazioni, parole vane nelle quali la cosa certa è che la politica ha perduto la sua lingua, il suo senso, la sua funzione. La crisi aperta dal Movimento 5 Stelle, col non voto al governo Draghi e ciò che ne è seguito, ha scoperchiato un vero vaso di Pandora, portando alla luce ciò che era stato solo intuibile e che si riverbera su tutti i partiti della coalizione di governo chiamati in causa e mossi da spinte diverse: cosa fare, come uscire da questa "impasse" che minaccia di paralizzare la vita politica e la realtà del paese.

La prima vittima di ciò è il Movimento 5 Stelle appunto, già indebolito dall'uscita di Di Maio e dei suoi sodali e che ora si ritrova in una condizione di confusione, tirato da una parte e dall'altra dagli oltranzisti della cosidetta "purezza", i paladini del popolo insomma, ostili a Draghi, e da quelli moderati, aperturisti, che vorrebbero una ricomposizione del conflitto aperto e un ritorno al governo. Il problema è che Conte, il loro leader, non ha una sua linea, una convinzione precisa, dice, si contraddice, ammassa riunioni infinite, ma non è portatore di un'idea che unifichi, non ha il controllo del partito, non ha le qualità che fanno di un individuo la guida cui si conferisce autorità e fiducia, quindi legittimazione, in qualunque organizzazione politica.

Inoltre la storia del movimento ha già in sé gli elementi che ne spiegano questa caduta: il Dna iniziale fra rabbia e voglia di moralizzazione, la crescita fino a un punto apicale col vento della protesta in poppa, poi l'ingresso in parlamento, poi ancora al governo, prima con la destra, poi con la sinistra. In tutto questo percorso frastagliato però esso, il Movimento, non ha costruito un suo gruppo di quadri adeguati, che sono poi il nerbo di un'organizzazione, non ha una sua classe dirigente presentabile, è rimasto incagliato in una doppia natura come l'ircocervo del mito e dunque una chimera; non è riuscito soprattutto a istituzionalizzarsi, cioè ad articolare e consolidare un insieme di valori, idee e pratiche provviste di senso, cosa necessaria per qualunque partito che voglia entrare nella fase adulta, voglia durare nel tempo ed essere soggetto incisivo nella realtà sociale.

E gli altri partiti cosa esprimono, qual è il loro stato attuale? Anche essi non godono di buona salute nel senso che non assolvono la funzione per la quale sono nati da un secolo e mezzo almeno: non sono più mobilitanti, hanno assunto ormai le sembianze di macchine elettorali, non frugano nella società per capirne problemi e mutamenti, non sanno rispondere alle domande di una società frammentata e agitata da veloci cambiamenti, non selezionano da decenni un ceto politico capace e hanno trasformato il "vivere per la politica" nel "vivere di politica", come Weber affermava un secolo fa, quindi privi di quella "passione" che, sola, può mettere al riparo dal sopravvento della burocratizzazione.

Le cause di questo scivolare dei partiti in strutture senza anima, senza il soffio vitale del partito progetto alla ricerca di un flusso di scambio con la società, sono diverse: un pragmatismo che abolendo le ideologie come gabbie totalizzanti, ha imprigionato anche le idee, la capacità di ascoltare il respiro degli uomini e delle cose e di farsene interpreti, ciascuno dal proprio punto di vista.

Ecco perché il nulla in politica ci avvolge oggi, in uno scenario popolato da "figurants", come De Gaulle diceva dei politici della IV Repubblica francese ormai al tramonto, ossia da comparse al posto degli attori veri, quelle che rischiano nelle cadute dal cavallo imbizzarrito, nei sentieri più aspri, nei conflitti pericolosi, ma appunto sono semplici controfigure prezzolate che poi spariscono. Il nostro spettacolo politico oggi offre questo scenario dove non contano la convinzione, la responsabilità, la competenza, tutte qualità necessarie per essere i custodi della "res pubblica" nel senso primigenio del termine. A sentire le dichiarazioni dei politici, roboanti, afflitte, dispensatrici di buon senso, sembra che la nostra classe politica sia virtuosa; non è così. Molti invocano a gran voce il ritorno di Draghi, altri come la destra scalmanata di Meloni, vogliono le elezioni subito, altri come Salvini e Berlusconi dicono, ritrattano, secondo la logica di lasciarsi aperte tutte le porte per non pagare poi un prezzo alto. La politica perduta.

A livello sistemico questo comporta alcune conseguenze: la prima è che il nostro sistema politico è sempre più frammentato e ogni giorno qualcuno con poca fantasia si inventa una sigla per un nuovo partitino anche piccolo, rachitico, ma con l'idea narcisistica di affermare il proprio "io" come fosse indispensabile alle sorti del paese. La tendenza dovrebbe essere al contrario come insegnano tutti i sistemi partitici che si sono modernizzati nelle varie democrazie europee, lasciandosi alle spalle impulsi da vecchi vassalli che difendono il loro piccolo feudo.

L'esperimento del governo Draghi, come ho detto altre volte, è stato ed è un antidoto a tutto questo, difficile, complicato, ma la sola via per fare le riforme necessarie, senza facili demagogie, mantenere una presenza dignitosa in Europa, tenere a bada le spinte centrifughe del populismo nei suoi diversi travestimenti.

Vogliamo perderla questa sfida?