di Antonio Saccà

Mentre nell’Europa del XVIII secolo camminava l’uomo razionale, logico-matematico, anche se empirico tuttavia scientifico. Ci si inoltrava in condotte umane universalistiche, essendo tutti gli uomini razionali pertanto in intesa razionale (come esaurire i meriti della ragione altrimenti che nominandola). La soggettività astratta si imponeva, la ragione più che l’individuo razionale di suo. Nella sperduta, marinara, soleggiata Napoli, tuttavia luogo di cultura specie musicale da striminzire l’intero barocco tedesco o veneto, un uomo, tutto in sé, “tipo caratteristico e studiosissimo alla rinfusa, originalizzava a sgambescio la filosofia abbrancandola, mai accaduto, alla storia, addirittura suscitando inconsapevolmente la sociologia (nella mia Storia della Sociologia, Newton Compton, lo colloco “anche” quale sociologo primigenio). A non dire che forse voleva essere un erede dei pensatori cattolici apocalittici, millenaristi, profetici, intenditore dei possenti disegni divini, un Dio che conosce, opera, volge gli accadimenti. In contraccolpo, quaggiù, nella terrestre terra, l’uomo ma non il soggetto, il singolo, o l’uomo come soggetto auto cosciente, bensì gli uomini, i popoli, carne, clava, forza, pensiero in atto, insomma: “storia”.

È una rivoluzione, la storia diventa la filosofia praticata, la filosofia coscienza della storia. Dove è la filosofia? Nella storia, modo di essere dell’uomo, nel sentire, nel vivere, quanto l’uomo attua, là c’è la filosofia dell’uomo. Ossia la storia resa cosciente. Bestione, dapprima, l’uomo, ed impressionabilissimo, emozionabilssimo, e dall’emozione sgorga la fantasia, e dalla fantasia l’arte. Nel tempo, avvicinandosi ai secoli moderni il mondo viene spiegato non già da miti prodigiosi, piuttosto dalla conoscenza delle cause – non è Giove a scagliare irato fulmini ma correnti d’aria o che altro – la scienza sostituisce la fantasia poetizzante. Del resto spariscono anche Dei, Eroi. Non definitivamente. Le civiltà che ordinano l’uomo con leggi, religioni, ed esprimono mitologie, poemi, fantasia, periscono, tornano, decadono, e l’uomo razionale forse ritroverà la fantasia, la poesia, le emozioni, a meno che non abbia una decadenza decadente non risorgitiva di voglia emozionale.

Sul pensiero italiano, ed in qualche misura europeo, Giambattista Vico ebbe risonanza perenne. E di certo qualche suono giunse pure a Schelling, Hegel. Fu pensatore dei vasti movimenti della storia, dei passaggi mentali, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla scienza, dagli Dei-Eroi all’uomo che conosce le cause degli eventi non vaneggiamenti. Certo, conoscitore delle cause che fosse, l’arte lo rendeva nostalgico, i tempi della fantasia, delle metafore, della percussione della realtà nei sensi commovendoli da scatenare il linguaggio.

Il sentire non soltanto il capire (Leopardi e Nietzsche ne furono convintissimi). È dal sentire che sgorga la parola, la coniugazione delle immagini, che si alterano in metafore, e ridanno, alchemizzata, la realtà tramutandola in parole e da parola in realtà. Il rapporto tra emozione, linguaggio, fantasia è una lascito di Vico. Egli preconizzava l’epoca nella quale la ragione avrebbe sopito le emozioni, il conoscere la fantasia, dicevo. Non che Vico negasse l’avvento della conoscenza razionale, il conoscere mediante cause sperimentabili. Ma non immaginava quanto avremmo perduto in emozioni. Peggio. Non avrebbe immaginato quanto non rimpiangiamo la perdita delle emozioni. Perché sentire di non sentire è sentire, ma non sentire di non sentire è il non essere dell’essere.

Figlio di un libraio gramo, e da bambino, Giambattista, danneggiato per una caduta, sopravvisse, ma forse gli causò un umore malinconico e per certo tempo impossibilità mentale. Poi studiacchiò, dai gesuiti, anche se fu di irregolarità perpetua. Gradiva il diritto, e ne divenne professore, precettore con la disposizione di una biblioteca. Scopre la filosofia, scopre la filologia, e si neoplatonizza: pensare una duplice manifestazione della realtà, quella perfetta (in Platone, il mondo delle Idee), quella umana. Il fare dell’uomo che dovrebbe aspirare alla realtà ideale condotta da Dio. Cultura, concezioni. Ma la famiglia di nascita è misera, Vico dà lezioni private, entra in Accademie, diventa finanche docente universitario, purtroppo non come giurista.

Si sposa, e forse perché distratto dagli studi, fa concepire alla consorte otto figlioletti, nella sua autobiografia riconosce che lo disturbavano. Ma era invasato dallo spirito cognitivo, gli dava gioia tutto il conoscibile, non come conoscenza descrittiva ma interpretazione organica del modo d’essere nel tempo della umanità. La caterva scintillò nella sua opera decisiva, La Scienza nuova, il percorso di come l’uomo trascorre dalla infanzia emozionata alla ragione, dall’arte alla scienza, ma può retrocedere. Di come l’uomo insegue una meta ideale, il dover essere, e Dio sorveglierebbe i percorsi, l’uno inteso dalla filosofia, quello ideale. Non che Vico disprezzasse la ragione cosciente di sé, meno ancora la natura, ma è la Storia che attua il nostro fare e noi conosciamo quanto facciamo. Pertanto è la storia intesa che resta l’oggetto della nostra identificazione. Noi siamo la nostra storia, non astratta autocoscienza. Dicevo, sia o no consapevolmente, la sociologia e filosofia positivista si appaiano a Vico. Henri de Saint-Simon e Auguste Comte in specie. Sul finire dell’esistenza smarrì se stesso ed il sapere. Ma alle porte dell’addio riebbe coscienza (1668-1744). Era una celebrità. Nella disputa rischiò che non lo si “insepolcrasse”. Infine fu riposto, ed è possibile rendergli onore. Chissà se Ugo Foscolo, che ne I Sepolcri ne riprende le concezioni conobbe che proprio Vico, che rende le tombe segno di incivilimento, scansò appena la sparizione della memoria.