Genova (Depositphotos)

di Franco Manzitti

Hanno condannato i black bloc responsabili di avere vandalizzato Genova, nella misura in cui li hanno trovati con le inchieste e i processi. Hanno condannato i poliziotti e i loro capi colpevoli di violenze nella caserma Bolzaneto e nella scuola Diaz, dove avvenne il massacro-vendetta delle forze dell’ordine. Hanno condannato trasferito, neanche troppo, i dirigenti che avevano fatto costruire prove false per giustificare il pestaggio sanguinoso dentro a quella scuola. Hanno degradato, ma anche promosso dirigenti, questori, vice questori protagonisti di quei giorni incredibili di Genova 2001, mese di luglio.

Ma ventuno anni dopo quei fatti indelebili, quando si celebra l’ennesimo anniversario nella piazza dove perse la vita Carlo Giuliani, il ragazzo ventunenne, genovese colpito alla testa da una pallottola partita dalla pistola del carabiniere di leva, Mario Placanica, coetaneo, assediato nel suo “Defender” dai dimostranti in quel venerdì maledetto, almeno due grandi “buchi” giudiziari rimangono nella ricostruzione sempre dolorosa di un evento indimenticabile.

Il primo buco è proprio quello della morte del ragazzo Giuliani. L’inchiesta per quella tragedia che segnò Genova 2001 fu rapidamente archiviata dalla Procura Generale di Genova su richiesta del procuratore Silvio Franz, che aveva aperto l’indagine nell’ipotesi di omicidio colposo. L’accusa contro il giovane carabiniere cadde nella forma in cui era stata formulata. E l’archiviazione fu motivata con la legittima difesa esercitata dal carabiniere, che si sentiva minacciato in piazza Alimonda, con il suo mezzo circondato dai dimostranti. 

Giuliani era a una distanza di sei metri e brandiva un estintore. Tutti i tentativi di chiarire la vicenda chiave del G8 genovese non sono mai andati in fondo, fino a una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che avallò nel 2009 le decisione della giustizia italiana.

E così tutta la tragica sequenza di quel venerdì pomeriggio tragico è rimasta indefinita. 

La prima versione, secondo la quale Giuliani era stato ucciso da una pietra lanciata da un altro dimostrante, sostenuta subito dopo il fatto dai commilitoni di Placanica, si è infranta anche per le maldestre mosse delle forze dell’ordine e poi grazie all’autopsia, a lungo contestata, che aveva confermato la letalità del colpo di pistola. 

Successivamente anche la fantastica ipotesi che la pallottola sparata in aria dal giovane carabiniere sarebbe stata deviata da una pietra lanciata in aria dai dimostranti è stata accantonata, anche se è clamorosamente rimasta in piedi per molto tempo. 

La famiglia di Carlo Giuliani si è battuta ( e non ha ancora smesso di farlo) a lungo e in tutte le sedi possibili per avere  un processo regolare, ma alla fine l’unico risultato è stato quello di ottenere un risarcimento materiale per avere perso il figlio.

 Così il destino di quel ragazzo, che era uscito di casa per andare alla spiaggia, in una calda giornata di luglio e poi era stato convinto a partecipare alle manifestazioni dei no global si è compiuto senza che la verità sulla sua tragica fine sia mai emersa. 

In parallelo a questo suo destino c’è quello di Placanica, la cui vita è rimasta profondamente segnata dal 21\ luglio 2001. Uscito dall’Arma dopo quella esperienza terribile il ragazzo calabrese ha stentato ad avere una vita normale, segnato per sempre da quello sparo, partito dalla sua arma.

L’altro processo abortito dopo i complessi fatti di Genova è quello delle “violenze di strada”, commesse durante i diversi, grandi cortei che percorsero Genova in quei giorni, contro i quali le cariche delle forze dell’Ordine furono spesso indiscriminate e violente. 

Dopo quei giorni ci furono ben 1500 denunce penali per violenze subite dai dimostranti, in questo caso tute bianche e spesso anche semplici cittadini, che sono rimaste sepolte in un silenzio totale. In alcune zone della città la polizia e i carabinieri avevano caricato e pestato inermi cittadini ben al di fuori delle zone calde dove i black bloc stavano devastando, incendiando, razziando. 

Nella panoramica Corso Italia, dove la domenica mattina del vertice un corteo pacifico si muoveva con famiglie , bambini, totalmente pacifici, le cariche erano state dure, improvvise e assolutamente ingiustificate. 

In piazza Manin, nel borghese e tranquillo quartiere di Castelletto, dove c’erano stati raduni di manifestanti pacifici, magari convinti di essere fuori dalla zona calda, gli scudi e i manganelli si erano abbattuti senza nessuna ragione se non quella di “dare una lezione”. 

Nonostante quella massiccia sequela di denunce con tanto di referti rilasciati dal Pronto Soccorso per ferite, lesioni, traumi, nessun procedimento è mai stato aperto. Eppure non era mai accaduto dai fatti storici di Bava Beccaris che le forze dell’ ordine “colpissero” durante una manifestazione i dimostranti in maniera massiva e indiscriminata.

Probabilmente la complessità di tutta la vicenda, la molteplicità degli eventi, il numero dei personaggi coinvolti, ha frenato l’ipotesi di un procedimento colossale che sarebbe costato istruttorie gigantesche, migliaia di interrogatori e di perizie.

Questo non toglie che, appunto, ventuno anni dopo anche questi fatti non abbiano avuto giustizia in un quadro assolutamente inedito della vita italiana, quando molti diritti furono come sospesi davanti all’emergenza di proteggere i Grandi del G8, riuniti nel centro di Genova, mentre intorno la città bruciava.