Mario Draghi (foto: @Ale_Mi - Depositphotos)

DI ENRICO PAZZI

È il mantra di Enrico Letta: l’agenda Draghi come punto fondante del progetto elettorale del Pd. Il programma del governo Draghi, quindi, quale pietra angolare sulla quale costruire l’alleanza elettorale del centrosinistra, posto che ad oggi, a pochi giorni dalle dimissioni di Mario Draghi, questo fronte è tutto nel limbo della politica.

Un elemento, però, che dovrebbe essere chiaro al segretario del Pd è che pochi “normali” cittadini hanno ben presente cosa sia e cosa dica l’agenda Draghi. E per “normali”, si intende quella grossa fetta di elettorato che è mediamente ignorante di cosa sia il Pnrr, di quale siano i capisaldi della politica estera del nostro Paese dallo scoppio della guerra russo-ucraina in poi, di quali riforme abbia bisogno il nostro Paese e di quale direzione debba intraprendere la nostra politica energetica nei prossimi lustri. Insomma, quella gran fetta di elettorato che, seppur abbia passato gli ultimi anni ad informarsi, lo ha fatto guardando i talk-show nazional-popolari delle principali reti tv, ha letto distrattamente qualche news sui social e ha seguito i battibecchi tra i vari leader, più o meno egoriferiti, dei vari partiti e movimenti italiani sui social.

Di fatto, la stragrande maggioranza dell’elettorato che si troverà a dover esprimere il proprio voto il prossimo 25 settembre, non ha la benché minima idea delle linee direttrici della linea di governo di Mario Draghi. A mala pena ha compreso che è stato incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il governo solo per fornire garanzie alla Commissione Europea che ci approvava un Piano di investimenti e di relativi debiti per svariare decine di miliardi di euro.

Poi magari, quello stesso elettorato, ha compreso che in qualche maniera sono state approvate alcune riforme a garanzia dei succitati miliardi e che questi soldi hanno iniziato a piovere da qualche semestre a questa parte. Ma non ha compreso nulla di più. Proprio perché il sistema mass-mediatico ne ha parlato poco e male. E quando lo ha fatto, ha trattato la materia sempre in maniera subordinata al povero e deprimente dibattito politico nazionale. Se poi a ciò si aggiunge che lo stesso Primo ministro Mario Draghi non è stato certo il tipo da ambire ad essere intervistato in prime time su, ad esempio. Porta a Porta, oppure a tenere improvvisate e ritardatarie conferenze stampa in diretta live su Facebook, allora si comprende come gran parte del lavoro mediatico doveva essere svolto proprio da coloro che avrebbero dovuto farlo questo lavoro: giornalisti e mass-media, con tutte le testate giornalistiche che animano il circo.

In mancanza di tutto ciò, ovvero di una continua informazione preparata e puntuale sull’agenda Draghi, adesso fondare un’intera e fulminea campagna elettorale su di essa, seppur il fine è nobile, appare alquanto pretenzioso. Anche perché l’agenda Draghi, anche solo superficialmente analizzata, contiene in sé tutti gli elementi capaci di mettere in disaccordo non solo due coalizioni che si contrappongono, ma anche le singole parti che compongono ciascuna di queste. Sposare l’agenda Draghi vuol dire essere “riformisti”, “europeisti” e “atlantisti”. Tre aggettivi che raramente potrebbero trovare patria anche in un solo partito o movimento italiano degli ultimi 30 anni.