Giorgia Meloni (Depositphotos)

di Ferdinando Fedi

Un’agenzia della Adnkronos di poche ore fa riporta che l’onorevole Giorgia Meloni è tornata sul tema “blocco navale” affermando che “... nel 2017 la Commissione ipotizzava un blocco navale, sì proprio il blocco navale, per fermare la partenza dei barconi e le morti in mare, e numerose altre volte ha chiesto misure serie e concrete di rafforzamento delle frontiere esterne e di cooperazione con i Paesi terzi per il contrasto all’immigrazione illegale”.

Tra tante questioni positive che Giorgia Meloni ha inserito nel proprio programma non si capisce perché si ostini a sbandierare come risoluzione al problema dell’immigrazione illegale il blocco navale senza approfondire o far approfondire le conseguenze di tale misura.

Spesso nel linguaggio politico si adoperano, o per errore o per studiata strategia, termini che nulla hanno a che fare con il significato che nell’immediatezza parrebbero avere. Il blocco navale è uno di questi. Supponiamo, comunque, che si tratti di errore e che esso venga usato in modo generico, tale da sovrapporre il significato del sostantivo a quello ben preciso previsto dal diritto internazionale, quale misura estrema. Se ci si riferisce a quest’ultima, per blocco navale si intende infatti un’azione di guerra volta ad impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di uno Stato belligerante, con cui si è in guerra. La Carta delle Nazioni Unite, sin dai primi articoli, vieta il ricorso all’uso della forza come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e il blocco, come l’aggressione, non può essere contemplato, se non in caso di legittima difesa di cui all’articolo 51 della Carta.

Per questo motivo, il blocco navale è compreso tra gli atti di aggressione ben precisati dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 3314/74, intervenuta per meglio specificare tutte le fattispecie di violazione alla Carta. In base al primo articolo della risoluzione, è atto di aggressione “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato o in ogni altra maniera contraria alla Carta delle Nazioni Unite”. Quando poi all’articolo 3 vengono elencate le azioni qualificanti l’atto di aggressione, spicca il blocco navale oltre all’invasione, all’occupazione militare, al bombardamento e all’invio di bande di mercenari.

Il nostro Parlamento ha recentemente votato l’autorizzazione alla ratifica di un emendamento allo statuto della Corte penale internazionale, che riguarda la definizione del crimine di aggressione e include il blocco navale come una delle sue attuazioni.

Passando dalla valutazione giuridica a quella militare, un blocco navale finalizzato ad impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un Paese parrebbe sovradimensionato ad intercettare e a contrastare piccole imbarcazioni – tipo barchini e gommoni – e in caso di violazione, risulta difficile immaginare come una violazione possa venire contrastata in tempo di pace. Anzi, uno dei motivi principali per cui tale misura è collocata tra quelle belliche, risiede nel fatto che essa consente un uso graduale e proporzionale della forza, altrimenti non consentito. In altre parole, non si può fermare un barchino con pericolose manovre dissuasive oppure facendo ricorso alla forza.

Chi persevera nel proporre misure inattuabili dovrebbe invece porre allo studio provvedimenti adatti davvero a fermare l’emorragia migratoria sempre più preoccupante, anche ai fini di un minimo livello di condizioni di vita che, successivamente allo sbarco, lo Stato non riesce a garantire. Facile fare la passerella a Lampedusa, meno facile controllare le baraccopoli a San Ferdinando di Puglia o in altre aree del Paese il cui degrado forse non è ben noto. Le possibili soluzioni non vanno limitate alla revisione degli accordi sull’immigrazione ma devono essere estese alla modifica delle Convenzioni che disciplinano e definiscono il concetto di porto sicuro (place of safety). Esse risalgono ad anni in cui le condizioni erano del tutto differenti da quelle attuali e, stabilito che le rotte dei migranti sono sostanzialmente consolidate, dovrebbero ora individuare un sufficiente numero di porti sicuri distribuiti in differenti Stati nel Mediterraneo, cui obbligatoriamente far convergere i comandanti delle navi a seguito della conclusione di un salvataggio in mare.

In estrema sintesi, dovrebbero essere firmati meno codici di condotta, che lasciano troppa discrezione per la gestione dell’emergenza, e più emendamenti alle convenzioni di base. Tutto questo, finché si continuerà a parlare a sproposito di blocco navale, non sarà possibile!