di Franco Mazzitti

Vista dall'Europa in piena guerra del gas e purtroppo anche delle armi e della minaccia nucleare, il Sud America, che chiamavamo un tempo America Latina, sembra lontana. E anche pacifica. Ma non è affatto vero e le tensioni che si sviluppano in molti paesi sotto lo stretto di Panama meritano un'osservazione molto più ravvicinata.

Ero in Cile 49 anni fa, alla vigilia del tragico golpe di Augusto Ugarte Pinochet, il generale con gli occhiali scuri, la divisa grigia, a capo di un esercito che marciava al passo dell'oca. Ricordo bene la tensione, il desabastecimiento, la mancanza di rifornimenti, i negozi vuoti, i camion senza carburante, l'avvicinarsi del grande scontro che avrebbe tinto di sangue il rio Mapocho, il fiume nel cuore di Santiago e rovesciato il governo di Unidad Popular di Salvador Allende, il socialista che era riuscito, al terzo tentativo, di farsi eleggere primo presidente in un governo marxista comunista, dopo Fidel Castro a Cuba, con un programma di forti nazionalizzazioni e statalizzazioni.

Da giovanissimo inviato in quella polveriera sudamericana, misuravo  con grande attenzione eventi che si sarebbero incendiati in quel'11 settembre 1973 ( un altro, precedente, terribile 11 settembre, prima di quello del 2001), in una tragedia che aveva portato al suicidio di Salvador Allende nel palazzo della Moneda bombardato dall'aviazione golpista e a un regime militare durissimo con una sospensione democratica fino all11 marzo 1990, quando le elezioni riportarono la democrazia in quel paese tragico e di una bellezza "eroica", tra il Pacifico,  le Ande con la nomina di Patricio Alwyn.

Per questo oggi che, praticamente nella stessa data, il Cile con un referendum "obbligatorio" respinge, "rechaza" la proposta di una nuova costituzione che sostituisca quella instaurata da Pinochet e per quanto modificata più volte ancora in vigore mezzo secolo dopo, il tema di questo paese travagliato torna con prepotente attualità.

Ora il Cile dalla primavera scorsa è governato da una maggioranza progressista con un capo dello stato, Gabriel Boric, trentenne "sbocciato" con i movimenti di protesta del 2019, il leader che ha presentato dopo un dibattito molto intenso la nuova Costituzione respinta nel referendum con voto obbligatorio, 93 per cento di partecipazione e solo il 39 per cento di suffragi favorevoli.

La sconfitta era in qualche modo prevista, se non in quelle proporzioni, e non chiude la partita che continuerà in riunioni e confronti, ma indebolisce pesantemente il nuovo governo.

In uno dei primi commenti al risultato, il presidente della vicina Colombia, Gustavo Petro, eletto a sorpresa per la Sinistra un mese fa, ha commentato con un tweet "Pinochet esta vivo, Pinochet è vivo".

Una frase agghiacciante, che ha scatenato un mare di polemiche, anche perché il giudizio è troppo duro e sembra più che altro un tributo del nuovo presidente di Bogotà al vento della Cordigliera, che lo ha aiutato ad essere eletto, sfruttando il successo precedente di Boric in Cile.

In realtà pochi in Cile considerano il voto una "resurrezione" di   Pinochet e dei suoi epigoni.

I fedelissimi del generale golpista sono tarati con una cifra vicina al 10 per cento. Una vera minoranza, rispetto a  una sinistra che "incarna" un paese dove le diseguaglianze sociali sono considerate un record mondiale.

In Cile il 2 per cento  possiede più del resto dell'intera popolazione. Per questo la nuova Costituzione, appena bocciata, ma ancora aperta nella discussione, si poggiava anche su un sistema che potesse redistribuire più equamente il reddito.

Ma non era certo solo questo il "succo" di una carta molto complessa, quasi una summa di principi e di difese dei diritti, a partire da quelli delle minoranze etniche, su tutti i Mapuche, che sono il 13 per cento della popolazione di 15 milioni del paese sudamericano.

Tutto questo conferma che laggiù, in fondo all'America latina e al Pacifico, esiste ancora un laboratorio politico che continua a funzionare nel bene e nel male. Dall' Unitad Popular di Allende, che aveva affascinato in Italia Enrico Berlinguer, con i famosi "spaghetti in salsa cilena", alle ricette economiche dei Chicago Boys, che Pinochet aveva installato nell'economia cilena sfruttando quel liberismo americano sfrenato, ora fino al tentativo di Boric di esprimere una carta così innovativa, forse troppo per un popolo ancora stratificato nella sua  composizione sociale.

Dove, invece, non si cambia e anzi l'emergenza è sempre quella di una inflazione mostruosa che tante diverse soluzioni del peronismo non riescono a cavalcare, è l'Argentina.

L'attentato fallito contro la vice presidente e già presidentessa Cristina Kirchner, che è scampata alla revolverata di una pistola con sette pallottole, inceppata mentre l'attentatore aveva già premuto il grilletto, sottolinea l'ennesima emergenza di un paese che non trova da decenni e decenni un minimo equilibrio, malgrado le sue immani possibilità.

Anche l'ennesimo leader insediato alla Casa Rosada, Alberto Fernandez immancabilmente peronista della categoria moderati è in grave difficoltà a neppure tre anni dal suo insediamento. Succeduto al liberal Mauricio Macri, una specie di Berlusconi argentino, oggi Fernandez, di cui Cristina è la vice, dopo il suo lungo regno, succeduto a quello del marito Nestor, sta naufragando, con l'inflazione al massimo storico.

Siamo vicini al crack del 2001, quando il potenzialmente più ricco paese dell'America Latina aveva fatto default, travolto dal suo colossale debito con molti organismi internazionali, durante vicende estreme, tra rivolte sociali, l'imposizione del famoso "corralito", il sistema che impediva ai cittadini di prelevare denaro dalle banche  travolte.

Ancora una volta un Paese, che ha attraversato, più di ogni altro del Continente, vicende politico economiche travolgenti, tra le quali una ventina di golpe militari, una guerra contro l'Inghilterra negli anni Ottanta, per il dominio sulle isole Falkland- Malvinas, la dittatura più feroce del tempo moderno del generali Videla, con decine di migliaia di desaparecidos e giustiziati, tra gli oppositori alla fine degli stessi  anni Ottanta, trema ancora tra povertà e rivolte sociali.

Il destino incerto del colosso sudamericano argentino riguarda anche il Brasile, che sta andando verso le elezioni di ottobre in un clima durissimo. Si sfidano, in quello che era chiamato al tempo della vecchia dittatura militare, il "gendarme" dell'America Latina, il capitano Bolsonaro, attuale presidente, espressione di un governo di estrema destra, appoggiato dai militari, dalle congregazioni evangeliche, praticamente sette ultraconservatrici e fanatiche e dall'alta borghesia e Lula, il sindacalista, ex presidente, ex imputato illustre di un colossale processo finito in un proscioglimento, che gli consente di correre per tornare a governare il paese. E' una sfida tra opposti assoluti: il governo di Bolsonaro, repressivo, anti ambientalista, che vuole deforestare una parte dell'Amazzonia, che ha combattuto la pandemia a modo suo, con il più alto numero di morti e da una posizione di quasi novax e quello dell'ex sindacalista che aveva portato il Brasile in cima al Bric (Brasile-India-Cina), il blocco dei grandi paesi emergenti, ma che poi è incappato nel processo, nel carcere, negli scandali.

Insomma l'America Latina trema e si scuote in processi un po' rivoluzionari, un po' conservatori. Bisognerebbe aggiungere il Venezuela di Maduro, la cui uscita dal bolivarismo di Chavez è una strada lastricata di recessioni spaventose, la Bolivia e la Colombia, di nuovo governate a Sinistra.

E' un lento e vasto terremoto, lontano dall'epicentro esplosivo dell'Europa praticamente in guerra. Ma guai a perderla d'occhio, soprattutto ora che gli Usa sono più chiusi in se stessi e che le materie prime, di cui quel Sub Continente è ricchissimo, e il loro controllo diventano un tema chiave per il futuro del pianeta.