Palazzo Chigi, sede del governo (foto Depositphotos)

DI GIUSEPPE COLOMBO

Fosse stato un settembre ordinario, i numeri della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza sarebbero già sostanzialmente noti perché il ministero dell'Economia può mettere le previsioni nero su bianco con qualche giorno di anticipo rispetto alla scadenza del 27 settembre. I dati imprescindibili sono quelli dell'Istat e questi dati sono arrivati stamattina a via XX settembre. Solo che questo è un settembre anomalo perché tra due giorni si vota e i numeri della Nadef sono materia delicatissima. E per questo le riunioni decisive, con l'annesso Consiglio dei ministri che dovrà dare il via libera, sono state rinviate. Scoprire prima i numeri significa irrompere in una campagna elettorale dove uno dei temi più decisivi e allo stesso tempo divisivi è lo scostamento di bilancio, più in generale quanti soldi avrà a disposizione il nuovo governo per la legge di bilancio, il primo provvedimento economico e anche quello più importante. La traduzione politica della posta in gioco è lo spazio per dare forma alle promesse elettorali, flat tax o quota 41 per le pensioni che sia, ma anche le risorse in cassa per allungare la coperta degli aiuti contro il caro bollette. Già di per sè il puzzle è complicato perché lo sforzo è duplice per via del costo dell'energia e della guerra. Se poi si parte con un gap considerevole, la tegola sul successore di Mario Draghi a palazzo Chigi è ancora più pesante. Pesa tanto: 25 miliardi. Meglio: lo spazio di partenza della manovra si restringe di 25 miliardi.

Insomma si parte da una difficoltà oggettiva e questo dipende dall'andamento del Pil. La Nadef di Draghi metterà in fila solo i numeri del quadro tendenziale perché quello programmatico è impossibile da praticare visto che toccherà ad altri scegliere quali misure adottare. Le stime del prodotto interno lordo saranno ridimensionate rispetto al Def approvato il 6 aprile, ma se per quest'anno i danni saranno limitati, lo stesso non si può dire per il prossimo, quello su cui impatta la manovra che va fatta in autunno. Il 2022 si chiuderà con un Pil a +3,5% e questo soprattutto per il buon andamento dei primi due trimestri. I problemi, invece, iniziano dal terzo, che dovrebbe avere il segno più davanti, ma in misura più contenuta rispetto ai primi sei mesi dell'anno, e soprattutto dal quarto, dove è atteso un'inversione di tendenza con il ritorno del segno meno. La tara di un anno iniziato bene, sulla scia del rimbalzo del 2021, e poi ammaccato dall'ampliarsi della crisi del gas e dalla guerra, marca sostanzialmente il lascito di Draghi. Insomma un'economia che si è ripresa dallo shock del Covid, con quasi tutti gli indicatori tornati ai livelli pre pandemia, ma che adesso, come ha riconosciuto lo stesso premier, deve scontrarsi con un rallentamento evidente.

È invece la stima del Pil per l'anno prossimo che lascia in eredità la difficoltà di muoversi tra spazi angusti. Dal 2,4% di aprile si passa allo 0,8 per cento. Sotto la soglia psicologica dell'1%, è il ritorno dello zero virgola. Soprattutto - e qui il tema si fa ancora più politico, cioè di tenuta del consenso a poche settimane dai voti raccolti - al quarto trimestre in territorio negativo si affiancherà, con grande probabilità, un primo trimestre del 2022 sempre con il segno meno davanti. Significa recessione tecnica. Ma torniamo ai numeri della Nadef. Minore crescita significa più deficit, che infatti tornerà a salire invece di calare, come era stato previsto in primavera, fino al 3,9 per cento. Andrà oltre il 5 per cento. Il debito, invece, proseguirà la sua discesa, anche se minima. Il combinato disposto di macroindicatori genera lo spazio di partenza per la legge di bilancio. Ma è il punto e mezzo di Pil in meno che determina il grosso del gap di partenza, a cui va aggiunto l'aumento della spesa per gli interessi dato che i Btp a 10 anni rendono il 4%, il doppio rispetto ad aprile. Insomma il costo del debito crescerà ancora, anche questo di più rispetto alle ultime previsioni. Il conto lievita ancora perché a gennaio scatta la rivalutazione delle pensioni: è vero che con il decreto Aiuti bis c'è stato un anticipo, ma è stato contenuto, mentre il grosso andrà tirato fuori tra tre mesi.

Partire con 25 miliardi in meno significa avere più difficoltà anche nella gestione dell'emergenza perché il taglio alle bollette e al prezzo della benzina, ancora tutti gli altri aiuti dati da Draghi alle famiglie e alle imprese, non sono ovviamente a costo zero. Costano e tanto. Certo l'inflazione genera più entrate, ma gli spazi per muoversi tra i conti pubblici restano angusti. Soprattutto se si vuole provare ad aggiungere qualche misura annunciata in campagna elettorale. Una via d'uscita c'è: alzare l'asticella del debito. Farlo è rischioso, non farlo strozza sul nascere la linfa propositiva di chi arriverà a palazzo Chigi. Un bel guaio.