Gente d'Italia

Ciak, si vota: analisi di una grande recita

di Massimo Adinolfi

"Vota come se fosse la prima volta". Ma perché mai lo spot trasmesso sui canali Rai non dice una cosa tipo: "Vota, è la tua prima volta?". Dopotutto, è ai diciottenni che si rivolge il messaggio, ai tre milioni di giovani che oggi votano per la prima volta, e sono loro che dicono, nello spot, "io voto". E dunque perché invitare a fare "come se", se si tratta proprio di quello che fanno?

Non sono nella testa degli autori e non so di chi sia la trovata. E non è che dubiti dell'efficacia del messaggio. Al contrario, voglio supporre che il messaggio sia efficace proprio così, con l'inserzione di quella sottile intercapedine fra il fare una cosa, e il farla come se fosse un'altra cosa (anche se in questo caso è quella stessa, ipsissima cosa che si fa), e però mi chiedo perché proprio così lo spot funzionerebbe meglio. Ho una certa idea al riguardo, che non proporrei se non pensassi che qualcosa forse insegna, riguardo alle modalità della comunicazione pubblica e della politica contemporanea (riduco le pretese: della politica nostrana).

A dire che va come se fosse la prima volta è, di solito, il cantante che sale sul palco per il millesimo concerto e però assicura che è ancora come il primo: la stessa emozione. È il neoacquisto che ai tifosi della nuova squadra giura che quando è entrato nello stadio è stato come se non avesse mai calcato il terreno di gioco: prima volta anche per lui. E magari è il bacio che due arzilli vecchietti si danno in favore di telecamera il giorno delle loro nozze d'oro, e che all'intervistatore giurano che quel bacio è stato come la prima volta. In tutte queste situazioni ben familiari ricorrono due elementi. Il primo è il rinforzo emotivo, il secondo è il microfono. L'emozione della prima volta è convocata per imprimere al concerto, alla partita o al bacio il crisma dell'autenticità, ma ci vuole il forcipe di un registratore, l'occhio di bue di un riflettore e un microfono sotto il naso per spingere il testimone di turno a spiattellare i propri sentimenti in pubblico, e in definitiva a consegnare ai posteri la spudoratezza di una dichiarazione così menzognera. Vale per baci, partite e concerti, vale pure per la campagna elettorale. Che più spudorata non si può.

Però i giovani protagonisti dello spot, con le loro facce sincere, votano davvero la prima volta: nessuna menzogna, strettamente parlando. Perché allora c'è bisogno, in più, di fare come se fosse la prima, pur essendo davvero la prima? Perché la nuda verità, evidentemente, da sola non basta. Perché la prosaica dimensione del voto deve essere ulteriormente connotata con la poesia dell'emozione di tutte le prime volte che – come si dice – non si scordano mai. La prima volta viene così inscenata, recitata: «fare come se» significa infatti recitare. E lo spot questo fa: ti invita a entrare nella parte, a seguire il copione con la promessa dell'indimenticabile emozione della prima volta. L'esperienza che vivrai, insomma, non è l'esperienza del voto, il battesimo della politica o l'ingresso nell'arena della cittadinanza attiva – cose troppo serie e troppo concettose –, ma quella che accompagna il brivido della «prima volta».

E la seconda? Voglio dire: a meno che non siate degli squillanti rivoluzionarie la pensiate come Thomas Jefferson, per il quale ogni nuova generazione dovrebbe riscrivere daccapo la Costituzione, bisognerà pure poter confidare in una certa durata delle istituzioni, nella continuità dei costumi politici, nella funzione etica della ripetizione. Se lo chiedeva Kierkegaard: una cosa guadagna o perde, a essere ripetuta? Chi ha confezionato lo spot non deve avere molti dubbi: al contrario di quel che pensava il filosofo danese, per il quale esistere è ripetere e ripetersi, far succedere ancora, avanzare nella vita confermando le proprie scelte, deve pensare che una cosa ci perde eccome, e sbiadisce, a esser ripetuta.

Ce n'è abbastanza, credo, per riconoscere nella filigrana dello spot Rai, volens nolens, un po' dello spirito pubblico circolato in queste settimane di campagna elettorale: i sentimenti posticci, il valore supremo della novità, la messa in scena. E le contraddizioni di un Paese vecchio, sfiduciato, che buttando a mare qualunque significato e valore di esperienza, si imbelletta e si finge giovane, come i leader politici che si avventurano su TikTok, rimanendo però seduti come statue di sale dietro le loro scrivanie. Che cammina sulle stampelle di un'emozione largamente contraffatta, come se l'intero universo delle possibili derive illiberali di un sistema democratico (che ci sono, ci sono sempre state e sempre ci saranno) fosse legato solo ed esclusivamente alla ridicolaggine dei saluti romani. Che simula immediatezza e spontaneità, e adotta un linguaggio sempre più sbracato, per cui Salvini fa le dirette deliziandoci con i suoi gusti alimentari, Calenda sbruffoneggia e dà l'indirizzo di casa, mentre Di Maio si libra felice e spensierato sopra i tavoli di una trattoria. Un Paese che avendo consumato ogni tradizione ideologica, e rinunciato a qualsiasi elaborazione politico-culturale – nessuno capisce più cosa vuol dire sinistra, si può essere progressisti avendo firmato i decreti sicurezza, si può essere atlantisti e amici di Putin, si può essere democratici con Orbán – un Paese così ha una sola carta tra le mani: recitare, e magari, a volte, seguire collaudate sceneggiature – come Giuseppe Conte che dà per realizzato l'80% del programma pentastellato, al modo in cui Berlusconi dava per rispettato il contratto firmato nel salotto di Bruno Vespa, ai tempi belli. Ma una recita sono pure le coalizioni, quella che il centrodestra si sforza di rappresentare unita, compatta, omogenea, sapendo bene che non potrà mai durare per l'intera legislatura, e che dalle parti del centrosinistra non esiste affatto, visto il paradosso per cui il Pd si allea con la sinistra con cui dichiara che mai governerà, mentre immagina di tornare a governare in futuro con i Cinque Stelle con cui, tuttavia, ha ritenuto di non potersi mai più alleare.

Però io voto, cavolo. E d'accordo: è la prima volta, e ti faccio i miei migliori auguri. Ma facciamo che voti pure la seconda, dando una mano non al continuo cambio di scena, e di leadership, ma a costruire qualcosa che dura?

 

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