di Alessandro De Angelis

La sfasatura tra una sconfitta “storica”, con la vittoria in Italia della destra più estrema, sottolineata dal giubilo di Viktor Orbán e Marine Le Pen e una gestione del post voto “ordinaria”, col segretario Enrico Letta che si propone come traghettatore verso il congresso, in una conferenza stampa priva di autocritica, a tratti indulgente perché “siamo il secondo partito del paese”. Anche l’ultimo atto di questa storia è la fotografia della crisi e della rimozione del principio di realtà, che consegna l’immagine di un partito irriformabile nei suoi meccanismi profondi, nell’impermeabilità del gruppo dirigente a qualunque scossa, nella postura autoassolutoria. Capace, o almeno questa è l’intenzione, di metabolizzare tutto, compresa la sconfitta peggiore della sua storia, per entità numerica – il risultato, in termini assoluti, è peggiore del 2018 – e carico simbolico. A maggior ragione se si assume per buona la narrazione dell’allarme democratico assunta durante la campagna elettorale: i “fascisti” entrano a palazzo Chigi e la resistenza è affidata a un meccanismo per cui il segretario, d’intesa con le correnti, accompagna il partito al Congresso, in attesa che le medesime si mettano d’accordo su un successore (ed è chiaro che lo stesso Letta pensi ad Elly Schlein), come se il problema fosse solo la scelta del segretario e non un orizzonte di rifondazione politica, culturale, ideale.

Si potrebbero scaricare su Enrico Letta le responsabilità di due mesi catastrofici, iniziati con gli “occhi della tigre” e azzoppati già dallo spirito da conigli con cui si sono fatte le liste, segnati dal richiamo al voto utile perché “votare Conte è come votare Meloni” e finiti pressoché auspicando un successo dei Cinque stelle in grado di arginare la destra; proseguiti lanciando l’allarme democratico senza accompagnarlo con la proposta di un Cln perché, da che mondo è mondo, se il tema è la difesa della democrazia allora non ha senso fissare come discrimine l’agenda Draghi (peraltro discrimine a metà, con la scelta di un alleato più antigovernativo dei Cinque stelle); e infine l’abbraccio con De Luca ed Emiliano, due simboli della degenerazione trasformistica del Pd nel sud che ha lasciato a Conte, oltre alla bandiera della giustizia sociale anche quella della questione morale e della legalità ben rappresentata, ad esempio dalla candidatura di Federico Cafiero De Raho, contrapposto a famiglie e ras del territorio. Come in "Prove d’orchestra" di Federico Fellini, non un concerto ma il caos, senza neppure uno spartito oscillante tra “Bella ciao” (senza crederci) e “Sandra e Raimondo” (credendoci sin dalla rinuncia a una battaglia per una legge proporzionale), affidato a stanchi orchestrali, preoccupati dal proprio destino personale.

Si è portato dietro, Enrico Letta, quel vizio di origine della propria segreteria, il classico nodo non sciolto che non poteva venire al pettine. Quel “mi vergogno del mio partito” scandito dal suo predecessore al momento dell’abbandono, rimosso per continuare nell’andazzo di un nuovo equilibrio nel sinedrio delle correnti, di cui poi ha beneficiato lo stesso predecessore, che si è tutelato in lista sfruttando gli stessi meccanismi che ha denunciato. Perché, in definitiva, questo è il punto: la ricerca di un equilibrio interno che è la logica presente anche nell’ultimo atto, per cui è stata scartata l’ipotesi di dimissioni immediate (Bersani mollò per molto meno) a vantaggio di una composta uscita di scena: voi non chiedete le dimissioni, io vi concedo il Congresso, ma traghetto io (e partecipo al gioco).

È evidentemente un meccanismo che rende il problema più grande di Letta, che pure ha la responsabilità di non aver fatto nulla per dare al Pd una salutare scossa. E che ha proseguito con le stesse logiche interne ed esterne, sostituendo la subalternità a Conte, nell’era del “punto di riferimento dei progressisti europei” con quella a Draghi, di cui il Pd è stato, all’ombra del perdurante rischiamo alla responsabilità, una sentinella priva di iniziativa fino a fare della sua “agenda” – un programma possibile di unità nazionale – un totem sostitutivo di una propria agenda con cui parlare al paese e misurare anche la bontà dell’agenda Draghi. Morale della favola: è stata lasciato a Conte il monopolio della protesta e la bandiera, sia pur declinata nelle forme del populismo demagogico, della giustizia sociale.

La verità è che questa sconfitta “storica”, non una semplice sconfitta politica nel gioco dell’alternanza, mette in discussione qualcosa di più di una segreteria, ma i fondamenti di un partito che, da quando è nato, non ha mai vinto un’elezione e non è mai andato al governo col consenso popolare: la sua cultura politica, i suoi gruppi dirigenti, insomma la sua “identità”. Il senso, prima ancora degli assetti e le ragioni del proprio agire politico e sociale. È l’intero impianto politico e culturale del decennio il tema da discutere, riassumibile in una domanda rimasta finora senza risposta: perché quelli indicati come “pericolo” – prima i barbari pentastellati, poi i sovranisti di rito salviniano poi i “post-fascisti” – siano percepiti dal popolo come opportunità di cambiamento e il Pd vissuto come establishment e travolto. E perché, se la sinistra ha governato così bene come racconta e si racconta senza uno straccio di autocritica, larga parte di quello che fu il suo popolo non l’ha votata. E perché, a forza di perdere le elezioni pur trovando il modo di stare sempre al governo, alla fine “si è persa”.

E forse la risposta è che “ha perso” perché “si è persa”. Questo voto è la tappa più drammatica di un percorso che dura da anni, innanzitutto di perdita di peso e di ragione sociale: sradicamento dai territori e dal lavoro subordinato, espulsione dal cuore delle giovani generazioni, incapacità di “inventare” una narrazione e un popolo, perché il popolo - attraversato al suo interno da bisogni, ambizioni, contraddizioni - non è un dato sociologico, ma una costruzione politica. La sinistra, da tempo, ha cessato di costruire il suo popolo. E ha cessato di costruirlo nella diffidenza e nella critica nei confronti del capitalismo, inebriata da una sbornia liberista fondata su una idea ottimistica della globalizzazione, per cui il suo impianto è diventato un combinato disposto di “mercatismo acritico”, declinato come subalternità acritica al vincolo esterno, e “difesa dei diritti civili”, spesso ridotti a bandierine. Un impianto da partito “radicale di massa”, sradicato dalla sua matrice laburista e socialdemocratica, che ha rinunciato a porre al centro della propria agenda la questione sociale e, con essa, un progetto di governo che parta dalla critica dell’esistente, lasciandola così al populismo e alla protesta.

È almeno un decennio che si è smesso di studiare, rinunciando al cimento di un’idea di trasformazione sociale, e questa rimozione ha reso più ampio lo iato tra una cultura politica densa di ottimismo blairiano, che ha accompagnato la nascita del Pd, e una condizione materiale del Paese, dove progressivamente si sono radicati rabbia e della rivolta, aggravati dalla crisi e dalla pandemia, con buona pace di chi ha frettolosamente pensato che il Covid potesse essere il virus che ammazzava i populismi. La vittoria di Giorgia Meloni è l’autobiografia perfetta degli errori democratici. Il successo elettorale è figlio del kamasutra politico di questi anni, iniziato con le larghe intese ai tempi di Monti e Letta, proseguito col governo giallorosso e finito con Draghi, segnato da un governismo senz’anima e dal rifiuto della via democratica al potere anche quando possibile come dopo la fine del Conte 1. Ed è figlio della mancata messa a tema della “questione sociale”, lasciata agli opposti populismi – gialli o neri – col risultato che il Pd è diventato il partito dei garantiti e di quelli che ce la fanno da soli, col dettaglio che quelli che ce la fanno da soli sono sempre di meno, come spiega l’erosione del consenso anche nelle Ztl, non solo nelle periferie.

L’opposizione può essere un salutare bagno di realtà, se scuote dalle fondamenta un meccanismo più irriformabile dell’Urss e se è l’occasione per fare i conti con i propri limiti, errori, e con l’afonia della sinistra che, per la prima volta, sembra senza interpreti. Mentre i nipotini di Almirante varcano la soglia di palazzo Chigi, con la fiamma che arde nel simbolo, e i nipotini della Dc governano il Pd fingendo di essere di sinistra, si sono dispersi i nipotini di Togliatti e di Berlinguer proprio ora che la crisi ripropone, in forma più acuta, il conflitto tra bisogno e privilegio, insomma la necessità di una visione, dal punto di vista di chi il lavoro ce l’ha, di chi non ce l’ha, delle tante periferie geografiche ed esistenziali. In attesa di un alato dibattito sullo “statuto” o sulle regole di un congresso intra-moenia tra la vicepresidente dell’Emilia Romagna che tanto piace a Letta e il presidente che piace agli altri, cercasi una scossa dal torpore. Anche un Nanni Moretti minore che da un palco di piazza Navona o da una pagina facebook denunci che “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Sarebbe almeno un segnale che l’elettroencefalogramma non è piatto.