Gente d'Italia

Autocritica, compagni…

 

 

 

di Mattia Baglieri

Autocritica compagni, nessun italiano è un ignorante. Democrazia vuole dire prima di tutto non delegittimare il prossimo e ascoltare le motivazioni altrui in una scelta. Molti stanno iniziando a dare degli ignoranti a chi non la pensa come loro, brandendo una spada questa sì neofascista nel pensiero.

Ricordiamoci che è proprio l'autoreferenzialità di certa sinistra a non essere apprezzata da tante persone, un atteggiamento da "capisco tutto io", impedendo a chiunque altro di entrare in una conversazione, mentre la democrazia è "ragionamento pubblico tra diversi", argomentava il padre dei teorici della democrazia John Rawls, dove "pubblico" significa "ragionamento di tutti" perché tutti possano accedere al dialogo da pari. Ma per fare il dialogo bisogna accettarsi vicendevolmente con tutti i propri limiti.

Berlinguer, Togliatti, Nenni, Amendola: tutti i grandi leader della sinistra avrebbero organizzato lunghissime sedute di autocritica, e non avrebbero consentito la delegittimazione dell’Italia mediante intollerabili ingerenze come quelle del primo ministro francese, fra l’altro prima ancora che un governo si insedi.

E non cominciamo neanche con il ritornello che tanto l'Italia fondamentalmente è di destra, l'Italia è di chi non viene percepito come artefice di malgoverno, o di governare non in nome del popolo ma delle élite economico-finanziarie o socio-culturali. I governi tecnici mostrano crolli vertiginosi alle elezioni proprio per questo, appaiono avversi agli interessi delle classi popolari ma vicini a chi tiene imbrigliata quella spesa pubblica che come argomenta Amartya Sen è alla base di ogni sviluppo economico e politico.

Dopo una sconfitta per molti così desolante, davvero si può pensare di arginare solo con il cerotto congressuale la ferita profonda di un centrosinistra scollato dalla sua base? Davvero possiamo pensare di coprire con una foglia di fico l’aderenza del centrosinistra in salsa italica non più al linguaggio del lavoro ma all’abbraccio funesto del capitale? Quanti esponenti della sinistra si sono lasciati sedurre dai paracadute dei CDA o delle porte girevoli che ti fanno passare con nonchalance dal Partito alle fondazioni pubbliche, private o municipalizzate? Se si pensa che nella Prima Repubblica i parlamentari comunisti avevano fissato un tetto al proprio stipendio, si comprende come questa misura non fosse una carità residuale, ma un modo per mantenersi prossimi alle persone comuni che alla fine della fiera ti tengono su la baracca. Questa vocazione etica è oggi còlta dagli esponenti del Movimento 5 stelle che infatti hanno limitato la sconfitta elettorale, pur essendo passati da primo a terzo partito in pochi anni.

Alcuni esponenti tra i più intellettualmente onesti degli ultimi anni, come Cacciari e Orlando, hanno avvertito nel profondo delle proprie emozioni quanto un progetto di centrosinistra “sia da ricostruire” dalle fondamenta, un’impresa che non può certo essere compiuta nei brevi tempi di una discussione congressuale, che come sempre negli ultimi anni porrà a confronto solo dei modelli di leadership, ma accantonerà completamente i veri temi forti che interessano alla gente, a partire dal welfare e dal lavoro.

Si affaccia una probabile candidata alla leadership in Elly Schlein, figura preparata del mio territorio.

Ma chiediamoci quante possibilità avrebbe oggi un figlio dei ceti popolari – in quell’ascensore sociale bloccato che è il nostro Paese – di arrivare a una leadership, non di destra (come nel caso di Giorgia Meloni), ma di sinistra? Quante possibilità al figlio di un operaio o di un impiegato di far germinare le proprie idee, dopo anni di leadership provenienti dal mondo dell’impresa o dei ceti più alti?

Schlein, come già Serracchiani, è stata indicata nelle alte sfere dal leader uscente – nel caso della Serracchiani dall’ala di Franceschini, mentre oggi il diritto di prelazione lo ha indicato Letta con il suo 19%, mentre appare lontano il 40% del tanto criticato Renzi… Quale segno di discontinuità, quindi, potrebbe davvero porsi all’orizzonte, oltre a un generico e astratto richiamo del segretario alla “linfa nuova”? Al netto di una sconfitta storica che ha visto addirittura far bocciare questo giro la candidatura della presidente del Pd Valentina Cuppi, alla sua prima esperienza da candidata parlamentare dopo anni da sindaca, per lasciare i posti più ambiti a un’ex europarlamentare, Schlein stessa, e al già senatore Stefano Vaccari. Non si è mai visto un segretario far erodere la candidatura di una presidente Pd, dopo le presidenze di Prodi, Bindi e Gentiloni, sempre proposti per incarichi di altissimo livello, dall’antimafia alla premiership.

Infine un dubbio storico: nel 2013 si cominciò per la prima volta a sentire parlare di Occupy Pd, il movimento degli Indignados del Pd. Un lessico di “occupazione” che a molti attivisti apparve oppositivo nei toni e nei modi, e al limite dell’irruente nei confronti dei tanti amministratori di centrosinistra che ogni giorno incontravano elettori delusi, giovani e anziani, ma si impegnavano per veicolare un linguaggio di riforma moderato e mite nei toni. Elly Schlein era allora in prima linea ed è giusto che onori le diverse possibilità istituzionali che le sono state offerte da quella visibilità.

Al netto dei vari nomi, allora, oggi abbiamo davvero bisogno di volti veramente nuovi, di leader che parlino di lavoro e che offrano concrete opportunità di vivaio anche al contributo che può derivare dai figli delle classi popolari, impiegatizie, operaie.v

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