Giorgia Meloni (Depositphotos)
di Ugo Magri
I britannici, col loro humor, avevano scommesso che la prima ministra Liz Truss sarebbe durata meno della lattuga: evidentemente non la vedevano così salda al governo (difatti la sfida è stata vinta dalla lattuga). Da noi Giorgia Meloni è appena entrata a Palazzo Chigi e pochi hanno voglia di scherzarci su, lei men che meno. Però la domanda su quanto potrà resistere al comando accomuna un po' tutti. E senza dover sprecare dell'insalata, o addirittura accoppare una pecora come facevano gli aruspici nell'antica Roma, qualche previsione possiamo azzardarla lo stesso.
Chiediamoci anzitutto chi sarebbe in grado di farla cadere. Per primi vengono in mente Berlusconi e Salvini che di motivi ne avrebbero: sgarbi reciproci, ambizioni represse, gelosie fuori scala e, non ultima, la loro fatica di dover sottostare a una "signora", come la definisce il Cav. Quanto al Capitano, è soprattutto la sua natura erratica, instabile, vagabonda a renderlo un alleato di sicura inaffidabilità. L'unica garanzia che può darti è qualche brutta sorpresa. Però Giorgia, che ben conosce entrambi, ha già preso le contromisure; uno umiliandolo ("non sono ricattabile"), l'altro piazzandolo al ministero delle Infrastrutture affinché si trastulli coi cantieri e le ruspe. Messi spalle al muro dall'ormai ex-Ducetta, quei due non hanno avuto la forza di reagire; per un po' se ne staranno a cuccia.
Quanto alle opposizioni, campa cavallo. Enrico Letta toglierà il disturbo, ha promesso, però senza scapicollarsi. Resterà segretario girandosi i pollici fino al prossimo congresso che, conoscendo le lungaggini dem, si terrà in tarda primavera. A quel punto ricomincerà il balletto delle alleanze con i centristi, coi Cinque stelle, con entrambi o magari con nessuno (che con questo sistema elettorale equivale alla sconfitta matematica) senza trascurare le variabili rappresentate da Sinistra Italiana e Verdi. Prima che il Pd sia in grado di rilanciare la sfida passeranno mesi, forse anni. Se nel frattempo il governo dovesse scivolare su qualche banana, a sinistra non sarebbero pronti ad approfittarne. Dunque i tapini, nell'attesa della rivincita, puntelleranno Meloni; il loro voto su Ignazio La Russa è stato solo un assaggio.
Per cui è vero: a Palazzo Madama la maggioranza poggia su uno scarto di soli 8 senatori (al netto di quelli a vita e del presidente, che per tradizione non vota). C'è pure il precedente tragico di Romano Prodi il quale, in condizioni analoghe, fu assediato dai "berluscones" per quasi due anni e alla fine dovette arrendersi. Però le maggioranze parlamentari sono proteiformi, magmatiche; nella patria del trasformismo, che siamo noi, appassiscono o si dilatano a seconda delle convenienze. In altre parole la tenuta del centrodestra dipenderà dal vento dei consensi. Se gonfierà le vele al governo sarà tutto un accorrere in soccorso della Sorella d'Italia, la quale non faticherà a imbarcare, volta a volta, ciurme di "responsabili". Se viceversa le cose buttassero male inizierebbe il fuggi-fuggi, il "si salvi chi può"; perché i parlamentari comincerebbero a guardarsi intorno nella speranza di accasarsi altrove; la maggioranza si sfascerebbe e adieu Meloni.
Dunque, per prevedere la durata esatta del governo bisognerebbe conoscere le curve dei sondaggi. Cioè immaginare quanto a lungo l'astro di Giorgia splenderà nel cielo e quando gli elettori cominceranno a stancarsi di lei (perché presto o tardi quel giorno arriva per tutti). Qui bisognerebbe chiamare in causa il populismo, le società di massa, la psicologia collettiva e citare Erich Fromm, José Ortega y Gasset, Elias Canetti per dirne solo alcuni. Ma accontentiamoci di procedere a spanne, senza discorsi profondi. Per come siamo fatti noi, la tendenza a salire sul carro del vincitore di regola dura un paio d'anni; poi subentra il tran-tran e infine la crisi di rigetto. Andò così con Matteo Renzi che, liquidato il povero Letta, sembrava padrone del mondo toccando il 40 per cento alle Europee del 2014, salvo parlare troppo e venire a noia nel referendum del 2016. All'infatuazione per lo statista di Rignano seguì quella per i grillini che, nelle Politiche del 2018, sfiorarono il 33 per cento (chi l'avrebbe mai detto?). Però, una volta nella stanza dei bottoni, pigiarono quelli sbagliati, col risultato che gli elettori dissero "avanti un altro" e puntarono su Salvini. A inizio 2020 la Lega veniva stimata al 37 per cento; da quel momento Matteo le sbagliò tutte, e adesso che siamo nel 2022 tocca a Giorgia.
In Italia, nella sostanza, ogni due anni si cambia, come dimostra la cadenza degli ultimi sei governi. La regola sarà rozza e poco scientifica, ma funziona. Con una conseguenza concreta: un po' per mancanza di oppositori e un po' per il nostro carattere nazionale, fino alle Europee del 2024 questo governo non l'abbatterà nemmeno un meteorite. Chi spera che cada prima può mettersi il cuore in pace.