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di Lorenzo Santucci

La Russia nel presente, la Cina nel futuro, ma la sostanza non cambia: entrambe rappresentano una minaccia reale per la sicurezza degli Stati Uniti (e non solo). È quanto emerge dall'ultimo rapporto di difesa nazionale, pubblicato giovedì dal Pentagono proprio mentre Vladimir Putin inveiva contro l'Occidente, in un discorso carico di retorica e propaganda pronunciato di fronte al club Valdai a Mosca.

Nei documenti National Defense Strategy, Nuclear Posture Review e Missile Defense Review, Mosca viene bollata come "una minaccia acuta" per via della sua invasione "non provocata" in Ucraina, nonostante venga ritenuta una potenza in declino. "I canali di comunicazione restano aperti e quindi abbiamo l'opportunità di gestire l'escalation", ha dichiarato il ministro della Difesa Lloyd Austin, anche se ciò non esclude la possibilità che questa avvenga.

Diverso il discorso per la Cina, che sia da un punto di vista tecnologico che militare viene invece vista come "in crescita" e quindi più preoccupante. Gli Stati Uniti, tuttavia, si preparano per lo scenario peggiore e nella nuova linea strategica non viene solo offerta una panoramica dei rischi in corso, ma sono state delineate (per sommi capi) le eventuali risposte dell'esercito statunitense. Nel documento torna centrale l'atomica come arma di deterrenza "per tutte le forme di attacco strategico", anche nel caso in cui gli attacchi avvengano tramite "mezzi non nucleari", senza specificare quali casi. Il che preoccupa un po' tutti, anche se da qualche settimana – ma una prima bozza riassuntiva era stata condivisa già a marzo - il capo del Pentagono sta rassicurando i partner Nato ed europei su come Washington intenda mantenere la sua "ambiguità calcolata".

È probabile che si tratti di una dimostrazione di forza da parte degli Stati Uniti, volta a dimostrare ai suoi nemici come non intende indietreggiare di mezzo passo di fronte le loro minacce. Quel che è certo è che, rispetto al passato, siamo davanti a un cambio netto e radicale. Nel documento emanato nel 2010, quando Barack Obama era presidente e Joe Biden il suo vice, la direzione indicata era opposta: si stava infatti cercando di diminuire la potenza nucleare e, soprattutto, Mosca e Pechino venivano coinvolte nel tentativo di dissuadere altri Paesi, come Iran e Corea del Nord, ad utilizzare la propria.

Otto anni dopo, Donald Trump aveva concentrato la sua linea difensiva sulle due "revisioniste", Russia e Cina, non ponendo alcuna differenza tra di loro. Oggi, invece, Biden considera la prima una questione impellente, soprattutto per il dramma che ha esportato in Ucraina, mentre la seconda come un vero pericolo per gli anni a seguire. Nonostante i deboli tentativi di negare l'evidenza e le ultime rassicurazioni sull'inutilità di utilizzare le sue armi strategiche nel Paese invaso, Putin potrebbe utilizzare le sue duemila armi nucleari tattiche "per cercare di vincere una guerra alla sua periferia o evitare la sconfitta se corresse il rischio di perdere una guerra convenzionale".

Questo perché non c'è nessun trattato che la vincoli, sempre che gli accordi internazionali in tempo di guerra abbiano qualche valenza significativa nello scoraggiare gli attori a non superare i limiti. Al momento, però, sembrerebbe non esserci alcun cambio nelle intenzioni russe, nonostante la recente esercitazione nucleare per rispondere a un eventuale attacco nemico, come quello che continua a temere da parte di Kiev (ma che la Nato ha già detto essere un tentativo fuorviante per mistificare, al massimo, le vere intenzioni di Mosca). Tuttavia, gli Stati Uniti hanno lasciato intendere di volersi riservare il diritto di rispondere con armi nucleari anche nel caso in cui l'attacco fosse di tipo convenzionale, in terra e così anche nello spazio. Come nella circostanza dei satelliti commerciali occidentali, che il Cremlino ha identificato come un obiettivo legittimo se venissero utilizzati per fornire supporto a Kiev. Ebbene, ha avvertito la Casa Bianca, qualora la Russia dovesse abbatterne uno di fabbricazione statunitense, Washington non resterà a guardare ma risponderà.

Parte della risposta alle mosse russe sta già avvenendo, soprattutto sul suolo europeo. Una presenza così massiccia delle forze statunitensi non si vedeva da quasi otto decadi, da quegli anni Quaranta in cui il continente era alle prese con la sua sfida più difficile. "Il dipartimento", scrivono dal Pentagono nelle ottanta pagine del rapporto, "si concentrerà sulla deterrenza degli attacchi russi contro gli Stati Uniti, i membri della Nato e altri alleati, rafforzando i nostri ferrei impegni del trattato, per includere l'aggressione convenzionale che ha il potenziale per degenerare in un impiego nucleare di qualsiasi scala". Tradotto in numeri: al momento i soldati schierati in Europa sono poco più di 100mila (prima dell'invasione russa erano 20mila in meno), con una brigata di truppe a rotazione nei Baltici e in Romania, dove è stato dispiegata anche la 101st Airborne Division come non avveniva dalla seconda guerra mondiale, appunto.

Una base permanente di soldati è stata stabilita invece in Polonia. Dal punto di vista dell'aeronautica, in Gran Bretagna verranno stabiliti due squadroni di F-35, la Spagna vedrà aumentare il numero di cacciatorpediniere, mentre Germania e Italia avranno ulteriori sistemi di difesa aerea. Numeri che fanno impallidire se pensiamo che a pochi chilometri più a est del confine europeo è in corso una guerra che determinerà molto probabilmente la stabilità futura della democrazia. Ciononostante, l'intenzione più volta ribadita da Washington non è quella di entrare in guerra. Piuttosto, come ha sottolineato proprio su Huffpost il direttore della rivista Limes, Lucio Caracciolo, potrebbe essere una dimostrazione di forza da parte statunitense prima di proporre un accordo di tregua a Putin, senza fargli perdere la faccia. Si tratta di un braccio di ferro poco piacevole, dunque, ma probabilmente necessario.

Con la Cina, al contrario, la postura degli Stati Uniti è notevolmente differente. Non che questa non rappresenti una minaccia, tutt'altro. Ma al momento non c'è alcuno scontro militare in atto ed è quindi necessario per il Pentagono anticipare le mosse in base alle informazioni – non positive – che possiede. Pechino "attribuisce grande importanza al rapporto" tra i due eserciti "ed è disposta a tenere la relativa comunicazione, ma ci sono principi e linee di fondo per lo sviluppo delle relazioni".

Ha risposto così il portavoce della Difesa cinese, Tan Kefei, all'affermazione del ministro statunitense Austin, che aveva in qualche modo accusato la controparte di voler tenere chiusi i canali di dialogo, su cui invece Washington stava lavorando per cercare di mantenerli aperti. "Se gli Usa intendono rafforzare la comunicazione", ha continuato Kefei, "dovrebbero eliminare i fattori negativi". Questi, sicuramente, non sono stati fugati nel documento del Pentagono, in cui si legge come la Cina abbia intenzione di arrivare a mille testate strategiche entro la fine del decennio, aumentando di molto il rischio escalation. "La Repubblica Popolare Cinese", ha affermato in sala stampa Austin, "è l'unica concorrente là fuori con l'intento di rimodellare l'ordine internazionale ed è sempre più in grado di farlo".

Nella terra del Dragone hanno giustificato l'aumento della propria capacità nucleare con la naturale capacità di difesa che ogni Paese dovrebbe avere, specie se questo è la seconda potenza al mondo. La paura di un attacco statunitense per rovesciare il governo comunista esiste ancora (ma sarebbe contraria a qualsiasi principio promosso fin qui dall'amministrazione americana, specie dopo il ritiro dall'Afghanistan, a meno che muovere guerra alla Cina non rientri negli interessi nazionali) e le armi che possiede Pechino potrebbero ben poco contro l'avanguardia a disposizione di Washington. Per questo, la Cina si arma. "L'Ucraina ha perso la sua deterrenza nucleare in passato ed è per questo che si è trovata in una situazione come questa", aveva dichiarato tempo fa un alto funzionario cinese in pensione. Dal 24 febbraio scorso, però, Pechino non sembrerebbe aver aumentato la propria capacità, ma ha solo rafforzato la consapevolezza del fatto che avere armi simili scongiura guerre letali, in una perfetta logica da Guerra Fredda. Ancor di più, dall'esito del conflitto in Ucraina potrebbe passare anche quello di Taiwan. Le situazioni sono completamente differenti, ma se la forza militare domina sul diritto internazionale non è escluso che Xi Jinping possa replicare con Taipei quanto fatto da Putin con Kiev. L'isola di Formosa è stata d'altronde uno dei temi caldi del XX Congresso del Partito Comunista Cinese, durante cui è stato ribadito che l'unica soluzione sia quella di un futuro sotto l'ala protettrice del Dragone. Anche per questo, gli Stati Uniti hanno ritenuto la Cina un pericolo del domani, ormai prossimo.

Diversi interrogativi sono però emersi una volta che la linea di difesa nazionale è stata resa pubblica. In primis, la capacità del Pentagono di saper rispondere nel concreto a queste sfide. Va bene identificare la minaccia, va benissimo prepararsi per tempo, ma la domanda che avvolge alcuni esperti americani è chiara: ne abbiamo la capacità? "Manca ancora un pezzo fondamentale del puzzle della deterrenza", scrivevano a settembre su Foreign Affairs, l'ex capo politico al Pentagono sotto l'amministrazione Obama, Michèle Flournoy, e l'ex alto funzionario della Difesa durante quella di Trump, Michael Brown. La tessera in questione riguardava "uno sforzo mirato del Dipartimento della Difesa per accelerare e ridimensionare drasticamente la messa in campo di nuove capacità necessarie per scoraggiare la Cina nei prossimi cinque anni. Il Pentagono sta sviluppando capacità sia offensive che difensive che impiegheranno decenni per essere progettate, costruite e schierate. Ma le tecnologie emergenti a duplice uso stanno cambiando il carattere della guerra molto più velocemente di così". Su questo il ministro Austin ha provato a dare una risposta concreta, affermando come sono stati stanziati oltre 130 miliardi di dollari per ricerca, sviluppo, test e valutazione, che rappresenta "il budget più alto per ricerca e sviluppo nella storia del Dipartimento della Difesa", che dovrebbe bastare "per creare un vantaggio duraturo per gli Stati Uniti".

Probabilmente di questo nervo scoperto se ne è reso conto anche Biden stesso, attirandosi però non poche critiche. Nella campagna elettorale del 2020, sempre per Foreign Affairs, quello che sarebbe diventato da lì a qualche mese presidente scriveva un articolo sul "Perché l'America deve essere di nuovo protagonista", in cui riprendeva la politica del suo predecessore Obama. Per l'ex avvocato l'arma atomica aveva un "unico scopo", quale quello di scoraggiare gli altri ad usarlo. Nel rapporto pubblicato dal Pentagono, invece, questo è diventato "il ruolo fondamentale", il che lascia supporre che può essere utilizzato anche in altre occasioni. Il cambio di rotta è avvenuto dopo la pressione degli alleati, preoccupati che la protezione americana potesse venir meno. Ora Biden deve gestire i malcontenti interni (che non si limitano a questa faccenda) e spiegare il motivo del suo passo indietro rispetto a quanto affermava due anni fa, quando prometteva che gli Usa non avrebbero mai usato per primi l'arma nucleare e, anzi, l'avrebbero relegata per il minimo indispensabile. Per giustificarsi agli elettori utilizzerà sicuramente due parole: Russia e Cina. Due minacce di diverse entità, ma per cui gli Stati Uniti nutrono la stessa identica paura.