Putin
Vladimir Putin (foto: Depositphotos)

di Michele Valensise

A questo punto cerchiamo di riepilogare. Vladimir Putin voleva conquistare Kyiv in tre giorni, eliminare Zelensky e insediarvi qualche "persona perbene"; rafforzare la sintonia con la popolazione russofona; far valere la superiorità militare di Mosca; impedire l'avvicinamento dell'Ucraina all'Ue; mantenere quanto più distante la Nato; sviluppare la cooperazione senza limiti con la Cina; consolidare il proprio profilo di potenza globale, assertiva e rispettata; isolare l'Occidente decadente e corrotto. Dal 24 febbraio la storia invece ha preso il verso opposto. Ciascuno di quegli obiettivi del Cremlino è stato puntualmente rovesciato nei risultati prodottisi. Da ultimo, per Putin l'emblema della eterogenesi dei fini è il ritiro delle truppe russe da Kherson, uno dei quattro territori in cui nelle settimane scorse Mosca si era ostinata a promuovere referendum farsa.

Alle difficoltà sul terreno si sommano quelle sul piano internazionale. In primavera, quando all'Onu 141 Paesi votarono per la condanna della Russia, alcuni si concentrarono più sui 35 astenuti tra i quali figuravano Paesi importanti e popolosi come Cina e India. L'isolamento della Russia era relativo, concluse più d'uno, piuttosto era l'Occidente a doversi preoccupare della condivisione, di fatto scarsa, di quella condanna. Ora, assente dalla riunione del G20 a Bali, il presidente Putin non avrà bisogno del rapporto edulcorato che gli presenterà il ministro Lavrov dopo aver messo via bermuda e t-shirt. Il Cremlino si starà rendendo conto che la continuazione della guerra sta affievolendo solidarietà rilevanti, come quella di Pechino.

Il G20 non teme di essere condannato a quindici anni di carcere quando nella bozza di conclusioni propone di chiamare "guerra" quella scatenata da Mosca contro l'Ucraina e il principio fondamentale del rispetto dell'integrità territoriale degli Stati. Cina e Stati Uniti riannodano un filo diretto di comunicazione. Tra i due resta aperta la forte competizione planetaria odierna e dei prossimi anni, nessuno immagina una passeggiata tra amici, tuttavia emerge un monito comune nei confronti dei fautori dell'uso della forza e di chi minaccia il ricorso alle armi nucleari. Vedremo che succede con Taiwan. La rivalità tra Xi Jinping e Biden è totale, ma appare basata sul pragmatismo, non sull'ossessione di un mondo da purificare e sottomettere senza pietà con i carri armati e decine di migliaia di morti.

Non ci sono cambi di campo o scatti risolutivi. I movimenti, come è fisiologico per la Cina, sono quasi impercettibili, eppure qualcosa si muove, con la cautela e la circospezione dei giganti. Le dichiarazioni che arrivano da Bali sembrano la pietra di paragone delle differenze tra i due "imperi": quello russo, chiuso in un'ottusa logica ottocentesca, mira al territorio da strappare con le baionette, il logoramento dalle trincee e le bombe sulle case; quello cinese punta sull'espansione economica, sul controllo tecnologico, sul dominio delle infrastrutture, oltre che sulla forza, e se possibile è ancora più minaccioso, perché più sofisticato.

Sullo sfondo di Cina e Usa, si muovono altri attori, sensibili alle ragioni dell'Occidente o inclini a una terzietà di convenienza, un neo-non-allineamento di interesse, comunque poco convinti dall'avventurismo di Mosca. Se analizzassero onestamente la realtà, anche gli strateghi russi dovrebbero tracciare un bilancio non esaltante delle sponde su cui in questa fase Mosca può fare affidamento fino in fondo. Chi chiamare a supporto della Russia? Sì, Teheran, Minsk, forse Pyongyang, ma poi? Può davvero essere solo questo l'orizzonte di un Paese come la Russia che aspira, legittimamente, a un ruolo da protagonista sulla scena globale? La riluttanza di Putin a comparire a Bali potrebbe indicare il suo dubbio di trovare pochi partecipanti felici di stringergli la mano.

Il mondo intero ha interesse alla fine della guerra, è sulle condizioni che occorre intendersi. La nuova raffica di missili russi di oggi sulle città dell'Ucraina è la risposta di Mosca al discorso di Zelensky al G20. Se le parole non piacciono, lo si comunica meglio con le bombe e avanti così chissà fino a quando. Sicché non è affatto semplice convincere gli ucraini a deporre le armi con cui vogliono difendersi e a sedersi al tavolo di una trattativa, prima per una tregua, poi per gli altri passi auspicabili.

Intanto, chi è abituato ragionare sui dati reali comincia a mettere opportunamente a fuoco strumenti e possibilità di un progresso sul piano diplomatico. È giusto riflettere da ora, ad esempio, sull'attivazione dell'Osce, di cui la Russia è membro, come anche sull'ipotesi di un Gruppo di contatto, un piccolo nucleo di Paesi che possano favorire un dialogo tra le parti, con le garanzie necessarie per assicurarne almeno l'avvio. Qualche precedente, come il Gruppo di contatto per l'ex Jugoslavia negli anni Novanta (Usa, Russia, Italia, Francia, Germania e Regno Unito), potrebbe aiutare nonostante le differenze. La buona diplomazia è fatta di tenacia e realismo. Per sedersi al tavolo serve però che ognuno pensi di poter guadagnare qualcosa, non di perdere tutto. Vale per ciascun belligerante, specie per chi ha deciso di difendersi, di resistere e se necessario anche di morire, per il gusto della libertà.