di Lorenzo Santucci
La terza rincorsa alla Casa Bianca di Donald Trump non poteva che partire dal luogo simbolo, la sua villa di Mar-a-Lago. L'ufficialità tanto attesa è arrivata dalla splendida sala da ballo del suo resort in Florida – oltre 2mila metri quadrati decorati con stucchi in oro e argento, lampadari e bandiere a stelle e strisce - di fronte a oltre cinquecento persone. "Mi candido perché credo che l'America non abbia ancora visto la vera gloria. Annuncio la mia candidatura, in order to make the America great again", ha affermato riciclando il suo slogan del giorno zero. Nei sessantotto minuti di discorso, Trump non ha fatto sconti a nessuno, a iniziare dall'attuale presidente in carica, sfidato a distanza.
"Con Biden sono stati due anni di dolore. Con la mia leadership siamo stati una grande e gloriosa nazione, ora siamo in declino", ha proseguito cogliendo al volo l'occasione del presunto missile russo caduto in Polonia. Mentre accadeva "noi abbiamo un presidente che si addormenta ai vertici internazionali e viene deriso", mentre "ci sta portando sull'orlo della guerra nucleare" (Biden, da Bali, ha twittato senza giri di parole: "Donald Trump ha rovinato l'America"). Con lui alla Casa Bianca, ha garantito, quanto si sta consumando in Ucraina non sarebbe "mai avvenuto, anche i democratici lo ammettono" e ha promesso di mantenere gli Stati Uniti "fuori da ogni guerra".
Pur non soffermandosi a lungo sull'argomento, a quanto pare la sconfitta del 2020 non è stata ancora digerita. La colpa è da attribuire all'interferenza cinese e al voto anticipato per posta (con cui i democratici vanno storicamente forti), che tanto vorrebbe abolire. Per quanto riguarda le ultime, invece, mentre lo accusano di aver contribuito alla debacle repubblicana nel midterm, lui si difende rivendicando le 232 vittorie contro le 22 sconfitte. "Abbiamo riconquistato il Congresso e licenziato Nancy Pelosi", ha affermato sorvolando sulle perdite degli Stati chiave. Trump guarda indietro solo per ricordare i suoi successi, senza però affrontare i fantasmi del suo passato: su tutti, la gestione della pandemia e l'assalto a Capitol Hill. Su quest'ultimo, la Giustizia sta indagando sulle sue responsabilità. Non è l'unica indagine, tanto che The Donald si è autodefinito "una vittima" delle inchieste giudiziarie, orchestrate ad hoc come nel caso del Russiagate, organizzato a suo dire da Fbi e deep state. Il "record" di mandati di comparizione che il tycoon si vanta di avere lo renderebbe "più perseguitato di Al Capone".
Terminato il discorso, ha chiamato sua moglie Melania sul palco, accolta dagli applausi, e si è allontanato con lei non prima di dire come "non c'è mai stato un movimento come il nostro. Questa non sarà la mia campagna, questa sarà la vostra". Sicuramente non lo sarà di sua figlia Ivanka e di suo genero Jared Kushner. "Voglio molto bene a mio padre" ma andando avanti non sarà coinvolta nell'arena politica", ha detto la quarantunenne in un'intervista a Fox News, a cui ammette di voler "dare la priorità ai miei figli e alla mia vita privata". Sarebbero quindi confermate le indiscrezioni del New York Post, secondo cui lei e suo marito non vorrebbero tornare sotto i riflettori ed esporre i loro figli al clamore mediatico. Anche Rupert Murdoch, magnate conservatore dei media che nel 2016 diede una grande mano per la vittoria di Trump, ha deciso da tempo di compiere un passo indietro e non supportare l'ex presidente. A gestire la campagna elettorale, con cui Trump spera di eguagliare il democratico Grover Cleveland, l'unico former president in grado di ricandidarsi quattro anni dopo aver lasciato Washington e vincere le elezioni (era il 1892), saranno con molta probabilità Chris LaCivita e Susie Wiles. A loro si affiancherà Brian Jack, direttore politico di Trump ai tempi della sua presidenza e molto vicino al leader della Camera appena riconfermato, Kevin McCarthy. Trump, quindi, nei toni utilizzati non sembra innovarsi, ma aggiunge qualche novità nel suo staff.
Soprattutto, riparte da dove si era fermato. Gli ultimi giorni da presidente in carica, li aveva infatti trascorsi proprio a Mar-a-Lago con una mazza da golf in mano, graziando amici e parenti (tra cui il padre di Kushner, che l'ha ripagato voltandogli le spalle), quasi dimenticandosi del fatto che mancassero oltre due mesi alla fine della sua amministrazione. L'epilogo è poi arrivato nel modo più triste e clandestino possibile, davanti Capitol Hill, con il tycoon che spingeva la folla a insorgere senza dirlo apertamente. Non è servito a nulla, visto che la sua responsabilità nell'occasione è comunque finita sotto accusa. Proprio le conseguenze di quel 6 gennaio possono essere un primo valido motivo che lo ha portato all'annuncio di martedì sera. Gli investigatori stanno infatti valutando il ruolo che ha svolto, riascoltando le sue conversazioni e controllando i tabulati telefonici. Candidandosi, il Dipartimento di Giustizia – alias, il procuratore Merrick Garland scelto da Biden - si troverà in grave difficoltà nel dover indagare su un diretto avversario dei democratici per la presidenza, senza correre il rischio di risultare fazioso. Ma, in realtà, sulla testa di Trump pendono ancora diversi processi che attendono una sentenza. In corso c'è quello dei documenti riservati trovati in alcuni scatoloni nel suo resort in Florida; quello che lo vede protagonista per aver chiesto due anni fa il riconteggio dei voti in Georgia, negatogli dal segretario di Stato Bran Raffensperger nonostante le minacce; infine quello sulla sua azienda, la Trump Organization, che avrebbe portato avanti negli anni attività illegali per sfuggire al Fisco. Dato il personaggio, l'annuncio potrebbe essere una delle tante mosse pensate più per se stesso che per il bene del partito – guarda caso, è arrivato proprio il giorno dopo la scadenza per la sua testimonianza sull'assalto a Capitol Hill, imposta dalla commissione d'inchiesta del Congresso.
Anche perché, dentro al GOP, ad amarlo sono pochi. Le elezioni di midterm di una settimana fa sono andate malissimo, con la Camera conquistata per un soffio e il Senato perso, forse addirittura con un risultato peggiore del 2020. E la colpa, a sentire molti conservatori, sarebbe proprio di Donald Trump. Tanto che, secondo il sondaggista conservatore Whit Ayres, nell'elettorato repubblicano convivono tre fazioni: gli "Always Trumpers", i più fedeli all'ex presidente, che costituiscono il 40%; i "Maybe Trumpers", che compongono il 50% del totale e sono coloro che l'hanno votato sia nel 2016 sia nel 2020 e che, ancora adesso, subiscono il fascino di Trump, ma contemporaneamente si interroga sul suo reale contributo alla causa; i "Never Trumpers", quelli che non l'hanno mai sopportato e che fin dal primo giorno nutrono dubbi nei suoi confronti, ma che sono una minoranza rappresentando solo il 10% delle elezioni. La divisione è stata lampante anche nell'ultima tornata elettorale. Dalle sfide per il Senato in Pennsylvania e Arizona, a quelle per la Camera in Ohio e Michigan, i candidati dell'ex presidente sono arrivati all'ultima curva ma senza riuscire a tagliare il traguardo per primi. Questo perché avere alle spalle Trump può essere vantaggioso, ma anche un grande peso. La sua figura, infatti, non unisce più come una volta. "Quando vinse nel 2016, disse che noi saremmo stati così stanchi di vincere che gli avremmo chiesto di smettere", ha ricordato Chris Christie, che sfidò l'imprenditore alle primarie di sei anni fa e adesso lo definisce "un perdente seriale". "Nel 2018 abbiamo perso la Camera, nel 2020 il Senato e la Casa Bianca, nel 2022 abbiamo ottenuto risultati deludenti, nonostante l'inflazione, il prezzo del gas e un presidente al 40%. Sono stanco di perdere, l'unica cosa che ha fatto Trump da quando è diventato presidente è vincere per se stesso". Gli ha fatto eco uno sconsolato Marc Short, ex capo staff di Mike Pence, ultimo vice presidente conservatore nonché possibile candidato per la presidenza. "La situazione era chiaramente a nostro favore, viste le preoccupazioni per inflazione, migranti e criminalità. Ma nonostante questo, non abbiamo centrato le aspettative". L'analisi che andrebbe fatta, ha continuato, riguarda la possibilità di un risultato diverso se alle elezioni si fossero presentati "candidati differenti, con uno stile differente".
Ad affermarlo sono in tanti, compresi anche i collaboratori più stretti di Trump, che gli avrebbero suggerito di aspettare perlomeno in ballottaggio in Georgia del 6 dicembre per non influenzare (negativamente) il candidato repubblicano, Herschel Walker, data l'importanza del voto per il Senato. L'annuncio è stato infatti più volte rimandato: inizialmente doveva essere pronunciato dopo il Labor Day, a settembre; poi in Ohio, in occasione dell'ultimo comizio prima del voto di metà mandato; poi di nuovo dopo le elezioni, il 9 novembre. Si pensava anche al 24 novembre, per il Thanksgiving Day, ma alla fine è stato scelto di anticiparlo di qualche giorno. Anche perché ritardare in continuazione il lancio della candidatura poteva essere letto come un segno di debolezza, tutto ciò che il tycoon non vuole sembrare.
Trump, piuttosto, sembra avere fretta. Avanzando la sua candidatura per primo, è come se volesse far capire alla concorrenza come non sia il caso di scendere in campo, a meno che non vogliano iniziare una lotta intestina che dilanierebbe un partito già profondamente ferito. Eppure, gli avversari di Trump non sarebbero pochi. Uno di questi è, come scritto, Mike Pence, che può vantare quattro anni di vicepresidenza alle spalle e, soprattutto, l'essersi opposto alle ultime richieste di Trump nel periodo di transizione. Ma di ex funzionari ed esponenti di quel governo repubblicano ce ne sono diversi, compresi alcuni che non hanno (del tutto) voltato le spalle al loro presidente. Nella lista figurano quindi Nikki Haley, che al tempo ricopriva la carica di ambasciatrice alle Nazioni Unite, nonché Mike Pompeo, direttore della Cia e successivamente segretario di Stato. In lizza ci sarebbe anche il governatore della Virginia, Glenn Youngkin, che l'anno scorso ha trionfato in uno Stato dove i democratici avevano stravinto con ben dieci punti di vantaggio. Da tenere sotto grande osservazione c'è anche Tim Scott, che potrebbe diventare il primo presidente afroamericano – dei repubblicani, ça va sans dire. Oltre ad essere l'unico tra le file dei conservatori ad aver raggiunto la rielezione in South Carolina, Scott potrebbe rappresentare quel profilo ideale per un GOP che deve recuperare terreno tra i più moderati. Suo nonno aveva votato per Barack Obama e adesso suo nipote spera "che possa vivere abbastanza a lungo per vedere eletto un altro presidente americano di colore, questa volta però repubblicano".
Per lui come per tutti gli altri, tuttavia, i tempi non sembrerebbero ancora maturi. Probabilmente non lo sono neanche per Ron DeSantis, l'unico davvero che ha tra le mani qualche chance di vittoria e il solo che Trump teme. Per Politico, se lo scontro fosse tra loro due, Trump godrebbe ancora del 47% dei consensi, contro il 33% del governatore della Florida. Che, tuttavia, sembra poter avere ampi margini di crescita. Non a caso, Trump lo ha ignorato nonostante abbia dominato in Florida – mentre l'ex presidente la conquistò con uno scarto di appena tre punti. Le uniche attenzioni che gli ha riservato sono state per insultarlo e per scoraggiarlo a partecipare alla corsa presidenziale. Gliel'ha ribadito anche sua nuora, Lara Trump, che si è rivolta al "molto intelligente" governatore per rinviare le sue ambizioni. "Voglio dire, è giovane, ci saranno molte opportunità per lui in futuro, e penso che abbia l'interesse ad avere tutto il partito con lui nel 2028, compreso il movimento Maga, piuttosto che ritrovare un partito diviso nel 2024. Dunque non sarebbe più bello, e penso che lui lo sappia, se DeSantis aspettasse fino al 2028?". Il che, in altre parole, significa una sola cosa: Donald Trump ha voluto essere il primo dei repubblicani a candidarsi per la Casa Bianca. E intende rimanere anche l'unico.