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di Cristofaro Sola

Il 13 dicembre si festeggia Santa Lucia, portatrice di luce e protettrice degli occhi. Ma il prossimo 13 dicembre è in programma, a Parigi, la Conferenza internazionale deiPaesi sostenitori dell'Ucraina. Il presidente francese, Emmanuel Macron, pensa in grande. Perché, si sarà chiesto, non trasformare un incontro di routine in un appuntamento con la Storia? Per lui è giunto il momento che la diplomazia prenda il posto delle armi. Nonostante i suoi sforzi, nel corso della visita di Stato negli Usa alla quale si presentato da alleato ma non totalmente allineato alla politica di Washington sulla Russia, sembra non sia riuscito a strappare il placet di Joe Biden per indire una Conferenza di pace sul conflitto russo-ucraino alla presenza di entrambe le parti coinvolte.

La Casa Bianca non si sbottona sulla possibilità di compiere un balzo in avanti nel processo negoziale con la Russia proprio in occasione dell'incontro programmato a Parigi. La posizione ufficiale di Washington non dà adito a dubbi: "The United States and France plan to continue working with partners and allies to coordinate assistance efforts, including at the international conference taking place in Paris on december 13, 2022".

Tuttavia, nella dinamica delle relazioni internazionali c'è sempre un'attività di superficie visibile agli occhi dell'opinione pubblica e ce n'è una carsica che non è decifrabile. Eppure, sarà un caso che la data scelta per il meeting sia la stessa della celebrazione della santa della cristianità? A noi piace credere che per un fortunato allineamento astrale la giornata dedicata alla protettrice della vista doni la luce del buonsenso alle menti offuscate dei politici occidentali. Basta col brancolare nel buio, è ora di darsi una svegliata. La guerra per procura combattuta dall'Ucraina contro la potenza russa sta andando male.

Non lo dice la propaganda russa ma lo afferma il generale statunitense Mark Milley, Capo dello stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, cioè l'ufficiale di rango più elevato nelle Forze armate degli Stati Uniti d'America. Mark Milley, lo scorso 17 novembre, ha dichiarato che: "le probabilità che una vittoria militare ucraina – intesa come l'espulsione dei russi da tutta l'Ucraina ivi compresa la Crimea – accada presto non è alta, militarmente". Tradotto in linguaggio corrente: scordiamoci la vittoria sul campo. E poi, non si possono fare i conti senza l'oste. È stata pura illusione immaginare che il Cremlino potesse prestarsi a fare l'agnello sacrificale pur di mettere a tacere la cattiva coscienza degli occidentali sulle cause che hanno portato allo scatenarsi della guerra. I russi stanno combattendo con tutta la ferocia e la crudeltà di cui sono capaci e che occorre per vincere una guerra. Di cosa meravigliarsi? Anche le potenze democratiche hanno usato mezzi, che a definirli poco ortodossi – atomiche, deportazioni, bombe al fosforo bianco e al napalm comprese – è un eufemismo, per conseguire l'unico scopo che conta in un conflitto bellico: vincere.

Cosicché, una volta ottenuta la vittoria, il vincitore potesse esercitare una delle molte prerogative che gli competono: riscrivere la Storia a proprio vantaggio. Altra prerogativa è di trascinare i vinti davanti a un Tribunale dell'umanità per la damnatio memoriae. È ciò che si vorrebbe fare con l'odiato Vladimir Putin. Ma non si può se prima non lo si sconfigge sul campo di battaglia. Putin il genocida? Se la Conferenza di pace si tenesse come auspicato e avesse successo, del Putin criminale, massacratore di ucraini, non si sentirebbe più parlare. Se, invece, la Russia venisse sconfitta, il capestro per la cricca del Cremlino avrebbe già gli ingranaggi ben oliati. È un gioco. Macabro, feroce, barbarico quanto si vuole, ma resta pur sempre un gioco di ombre e di maschere terrificanti, come nel teatro Kabuki. La guerra è cosa seria. Ha le sue tecniche.

Affamare e far morire di stenti e di freddo la popolazione civile rientra tra le opzioni previste dai manuali di tattica militare. È dal crollo delle mura di Gerico, dove però intervenne la mano divina, che si parla delle strategie più efficaci per far capitolare una popolazione assediata. Mentre l'Ucraina lotta per la sopravvivenza, nel resto d'Europa si vive la sindrome dell'accerchiamento per gli effetti asimmetrici della guerra. Le economie dei Paesi europei non possono reggere oltre la crisi degli approvvigionamenti energetici che ha spinto alle stelle l'inflazione e il costo dei generi di prima necessità. Ed è ciò che Emmanuel Macron è andato a dire all'omologo statunitense. La fragile Europa, vaso di coccio tra marmitte di ferro, rischia di rimanere stritolata tra la potenza coriacea russa e l'astuzia statunitense che persegue i propri interessi nazionali senza guardare in faccia a nessuno. Il democratico Biden ha sfrattato l'acerrimo rivale Donald Trump dalla stanza ovale ma il crest con la scritta "America first" l'ha tenuto. E non solo. Vi ha aggiunto una tacca: la legge anti inflazione che, introducendo sussidi ritenuti da Macron "super aggressivi" sulle rinnovabili, "rischia di spaccare l'Occidente".

E poi, c'è tutta la preoccupazione dei disorientati europei per la mancata sincronizzazione dei processi di transizione green tra il Vecchio continente e gli Stati Uniti. Joe Biden deve valutare con molta attenzione se sia conveniente tirare troppo la corda con gli alleati di Oltreoceano costringendoli a sposare la causa della guerra a oltranza al gigante russo. D'altro canto, la perdita del controllo di una delle due Camere del Congresso, dopo le elezioni di Midterm, potrebbe consigliare all'inquilino della Casa Bianca di cogliere l'occasione offertagli dal leader francese per invertire la rotta sul dossier Russia e puntare a un compromesso negoziale serio e risolutivo con la controparte moscovita. Anche la speciosa pregiudiziale, per l'avvio dei negoziati, della cessazione dei combattimenti e del ritiro delle truppe russe dalle posizioni occupate a seguito dell'aggressione al territorio ucraino del 24 febbraio scorso, può essere accantonata.

La scelta di Parigi come sede di una conferenza di pace si riconnette idealmente a un altro negoziato che si tenne nella capitale francese cinquant'anni orsono. Allora lo sfondo fu quello dell'Hotel Majestic di Parigi; i protagonisti furono gli americani guidati da Henry Kissinger da una parte e, dall'altra, i nordvietnamiti rappresentati dal negoziatore Lê Đức Thọ; oggetto del negoziato, l'accordo per la fine della guerra del Vietnam e il ristabilimento della pace in Estremo Oriente. In quella circostanza i negoziati vennero condotti pur proseguendo la guerra sul campo. Soltanto dopo la firma del Trattato di pace, il 27 gennaio 1973, i combattimenti cessarono. Allora, perché non provare a fermare le armi da fuoco con le armi della diplomazia? Non potremmo essere più d'accordo. E pur di vedere raggiunto il risultato della cessazione delle ostilità con la Russia, siamo pronti a ingoiare il rospo che il promotore di questa fondamentale iniziativa di pace sia il francese Emmanuel Macron. Ma siamo ancor più lieti di apprendere che la prima reazione del nostro ministero degli Esteri all'iniziativa di Macron sia stata positiva.

Antonio Tajani, titolare del dicastero, ha dichiarato che: "L'Italia è molto interessata e sosterrà ogni iniziativa politica e diplomatica. Tutta l'alleanza atlantica, tutti i Paesi che vogliono la pace saranno pronti a parlare con Putin se, davvero e con concretezza, dimostrerà che questo è il suo interesse genuino". L'avvio del dialogo non fermerà l'invio di nuove armi all'Ucraina per la sua difesa, com'è giusto che sia. Ma già il fatto che si prospetti un dialogo è una buona notizia. L'auspicio è che tutte le parti interessate siano pronte a giocare la stessa mano e non vi sia nessuno che, al contrario, si sieda al tavolo solo per guadagnare tempo in vista di un successivo rientro nel conflitto con risorse nuove e più fresche. Non sarà un negoziato semplice, anche perché dovrà ridefinire le aree d'influenza e quelle di neutralità nell'Est europeo, da riconoscere reciprocamente tra Alleanza Atlantica e Federazione Russa. Ciascuna parte sa che dovrà rinunciare a qualcosa se vuole ottenere la pace.

Lo sa Vladimir Putin, lo sa Volodymyr Zelensky, lo sanno i principali leader occidentali. Si tratta adesso di trovare il coraggio di dirselo apertamente e, soprattutto, di spiegarlo alle popolazioni coinvolte. Se i due leader in guerra non dovessero trovare le parole giuste gliele suggeriamo noi, attingendole alla saggezza proverbiale dei nostri nonni per i quali: un cattivo accordo è sempre meglio di una buona sentenza. E, visti i precedenti storici, una sentenza favorevole ottenuta sul campo di battaglia non sempre ha portato fortuna a chi l'ha conseguita. Perciò, resta preferibile un accordo che scontenti un po' tutti i contraenti e non ne accontenti pienamente nessuno, perché è quello che alla lunga funziona. E fa felici tutti. Noi compresi.