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di Maurizio Guaitoli

Kaluga (Russia): ovvero, l'inizio della fine per la globalizzazione post-sovietica? Chiuso l'impianto locale della Volkswagen, il più grande tra quelli "delocalizzati" nell'alveo dell'automotive tedesca, in ritirata strategica dopo il 24 febbraio assieme a un altro migliaio di "Campioni" occidentali, si profila lo spettro della disoccupazione di massa per centinaia di migliaia di addetti nei servizi e nel settore manifatturiero, che occupa 10 milioni di lavoratori russi. Riappare così, come per incanto, lo scenario sovietico in cui è lo Stato a farsi carico di sussidiare chi è rimasto a casa a causa delle sanzioni occidentali. È il New York Times (Nyt), con "War and sanctions threaten to thrust Russia's economy back in Time", ad analizzare con professionalità e competenza lo stato dell'arte della situazione interna dell'economia russa. E lo fa partendo dalla dichiarazione del primo ministro, Mikhail Mishustin, secondo cui "le sanzioni occidentali non hanno domato la resilienza del sistema finanziario russo, né avuto un impatto significativo sulla stabilità macroeconomica", che appaiono giustificate dai dati di fatto sulle proiezioni di decrescita del Pil nazionale nel 2022, rivalutato a -3,5 per cento dal Fondo monetario internazionale e in sintonia con le stime ufficiali del Governo di Mosca. Dato piuttosto significativo quest'ultimo, se si pensa alla decrescita annuale a doppia cifra fatta registrare dal Venezuela, messo in crisi dalle sanzioni americane del 2019.

La ragione per cui l'effetto recessivo delle sanzioni occidentali ritarda sulle aspettative dei loro promotori, secondo il Nyt va ricercata nella combinazione, come la rendita petrolifera che continua a mantenersi piuttosto elevata, grazie al sostegno dei Paesi che non aderiscono alle sanzioni, come Cina e India che sono tra i più energivori del mondo; le cospicue riserve valutarie; la presenza di un team qualificato di consulenti economici che hanno permesso a Putin di attenuare l'impatto dell'esclusione della Russia dal sistema Swift delle transazioni internazionali. Tuttavia, osserva il Nyt, è il futuro delle giovani generazioni russe a essere seriamente compromesso, a causa sia dello scontato e forte arretramento tecnologico, sia per la perdita degli investimenti esteri e di know-how. Ma sbaglia chi guarda solo al Pil per valutare macro-economicamente l'effetto delle sanzioni, che invece hanno sin da ora un risvolto destabilizzante sul lungo periodo, per quanto riguarda la modernizzazione della Russia che si voleva allineare agli standard occidentali ed europei nell'era post-sovietica. Invadendo l'Ucraina, è andata perduta la speranza di far progredire il Paese per renderlo una Nazione moderna e prospera entro la fine di questo decennio. E a nulla vale il tentativo dall'alto di mantenere una normalità apparente, quando si degradano notevolmente i driver (o indicatori fondamentali) strategici della crescita, quali i trasferimenti di tecnologia e gli investimenti esteri. Viene meno drammaticamente, di conseguenza, il piano ambizioso di Vladimir Putin di diversificare un'economia quasi esclusivamente dipendente dalla rendita petrolifera ed energetica.

Il Nyt prende in esame, in particolare, il settore dell'automotive in Russia, la cui produzione ha avuto un crollo del 77 per cento nel 2022, con un'analoga diminuzione del 60 per cento delle vendite di auto, a seguito della mancata fornitura di componenti (soprattutto elettronici) prodotti in Occidente, indispensabili al funzionamento dell'industria automobilistica russa. La drammatica parabola discendente del distretto industriale di Kaluga rende meglio di qualsiasi altro commento l'involuzione economica che la Russia sta attraversando. All'inizio del suo boom economico, grazie alla lungimiranza del governatore regionale dell'epoca, Kaluga era riuscita ad attrarre gli investitori esteri, trasformando radicalmente la sua economia locale, ai tempi dell'Urss basata per l'80 per cento sul complesso militar-industriale. Fu realizzato un moderno aeroporto, che collegava la Germania con più voli giornalieri e vennero i primi grandi insediamenti (frutto delle delocalizzazioni) industriali di aziende farmaceutiche e manifatture automobilistiche, come per l'appunto la Volkswagen, con più di 4.200 addetti la cui produzione nel 2020 era pari al 13 per cento del totale regionale dell'industria. Dietro i tedeschi arrivarono Volvoe Stellantis, per assemblare modelli quali Peugeot, Citroën, Opel, Jeep e altri brand della Fiat. Per favorire l'occupazione, le università locali organizzarono corsi di tedesco e di altre lingue straniere, dando così l'illusione che si andasse gradualmente costruendo un nuovo modello di business a livello regionale, da rimodulare poi a livello nazionale.

Per capire quale grado di arretratezza possa indurre l'abbandono del mercato russo da parte delle aziende manifatturiere occidentali, sarà sufficiente citare, come fa il Nyt, il fallimento del tentativo di sostituire brand locali a quelli esteri, finanziato da Mosca per 500 milioni di dollari. Così la russa AvtoVaz, produttore delle famose auto Lada, ha avvertito i consumatori che le sue nuove vetture non avranno né airbag, né standard adeguati circa il controllo delle emissioni, fermi al 1996! Kamaz, un'affiliata di AvtoVaz, ha comunicato che rilancerà anche con motori elettrici i modelli Moskvich di epoca sovietica e che, allora, furono oggetto di derisioni e battute irriverenti in Occidente, a causa della loro scarsa qualità e del poco attraente design. Infine, il ministero dell'Intero russo ha comunicato di non aver trovato un fornitore per 2.800 veicoli destinati alla polizia urbana. Tutto ciò a causa del fatto che le aziende russe sono carenti in know-how e non possono contare su soggetti qualificati in grado di sostituirsi al capitale occidentale nei settori ad alta densità di tecnologia. Ovviamente, nel caso esemplare di Kaluga, al crollo della manifattura e dell'occupazione locale segue la progressiva caduta dell'immobiliare, dei redditi da lavoro e dei consumi. E questo vale, altresì, per la proiezione nazionale dei possibili effetti a lungo termine delle sanzioni. Altro che vincere la sfida con l'Occidente!

Non va di certo meglio all'altro, ben più grande e temibile autocrate: Xi Jinping, il nuovo Imperatore Celeste cinese, beneficiario di un mandato praticamente a vita, al quale l'edizione citata del Nyt dedica un'attenta analisi ("China's Struggle With Covid Is Just Beginning") sulle conseguenze della sua assolutistica politica nota come "zero-Covid". Infatti, il problema vero per Xi è come "uscirne"! Per non farsi dire dietro da Donald Trump e dall'Occidente (a proposito delle responsabilità cinesi sul mancato allarme in merito al virus di Wuhan), il Partito Comunista cinese ha impiegato risorse colossali per test di massa, vaccini (scarsamente efficaci), infrastrutture per la quarantena, sistemi capillari di tracciamento digitale dei contagiati e dei loro contatti, lockdown per le megalopoli da decine di milioni di abitanti e cuore pulsante dell'impetuosa crescita economica della Cina. Nel periodo iniziale, le chiusure hanno protetto la cittadinanza, ma quando si sono sostituite al virus di Wuhan le mutazioni altamente contagiose (come Delta e Omicron), le cose sono precipitate a causa dell'inadeguatezza delle infrastrutture sanitarie e dell'invecchiamento della popolazione. Come ormai è ben noto, schermare le popolazioni rinchiudendole in casa con rigidi lockdown ne incrementa la vulnerabilità, inibendo l'immunità che fa seguito al contagio. Per di più, le chiusure hanno creato un eccesso di confidenza a causa del basso numero di infezioni registrate nei periodi di confinamento, disincentivando le vaccinazioni. Così, se nove cittadini cinesi su dieci risultano vaccinati, soltanto metà degli ultraottantenni hanno beneficiato di un booster, lasciando milioni di loro senza vaccino e creando uno scellerato loop tra scarsa immunità e ricorso ai lockdown per evitare il peggio.

E le folle che hanno partecipato alle manifestazioni anti-lockdown hanno fatto salire i casi a parecchie decine di migliaia al giorno, con milioni di contatti da tracciare e quarantene da organizzare, con serio rischio di default del sistema di prevenzione. La sfida per Xi è la seguente: se il suo Governo dovesse abbassare la guardia, in proiezione nei prossimi sei mesi si infetterà un quarto della popolazione (di 1,4 miliardi di anime), pari a 363 milioni di nuovi contagi da Omicron, 620mila decessi e 32mila nuovi accessi giornalieri in terapia intensiva. Si può solo immaginare con quali effetti tremendi, politici e sociali, per la sopravvivenza del regime e della globalizzazione. Morale: come una tossina naturale può demolire uno Stato autocratico e far cadere il suo Imperatore. Uomo avvisato... Democrazie: su la testa!