DI STEFANO CASINI

Ricordo, tanti anni fa, verso la fine degli anni 60, quando avevamo una collettività molto meno numerosa di oggi, ma estremamente piú attiva e al 70% formata da italiani nati in patria, che c'erano 3 grandi associazioni che si trovavano tra le piú vivaci e forti: l'ANPI(Associazione Nazionale Partigiani Italiani), l'ANCRI (Associazione Nazionale Combattenti e Reduci d'Italia) e l'ANA (Associazione Nazionale Alpini). I Maggi, i Bravin, gli Andreoni, i Muzi o i Costanzelli erano alcuni dei grandi personaggi che erano stati partigiani, alpini o persino nemici in guerrache, in ogni caso, erano tutti amici per la pelle

Con il passar del tempo e la scomparsa fisica dei protagonisti, queste associazioni sono scomparse come il loro significato storico. Non ci sono piú combattenti di guerre mondiali, non ci sono piú Alpini del Piave e non ci sono piú partigiani. Ma le storie che questi italiani, che hanno fatto grande il nostro paese ma, soprattutto, la nostra comunità, hanno lasciato profonde impronte e vi presentiamo un racconto pubblicato sulla rivista "QUIPANTIANICCO Ieri e Oggi" scritto da uno dei figli di questi avvenimenti storici, come il nostro caro lettore e amico Mario Matiussi, ancora oggi titolare della EFASCE Uruguay.

L'arrivo in caserma fu impetuoso – mi raccontó tempo fa, – Benvenuti negli Alpini! Ci disse l'ufficiale di turno, qui presterai servizio e riceverai addestramento militare! Il motto del Battaglione Cividale è "O là...o rompi. Mai daur", motto unico, drastico e senza giri di parole! Il "battesimo in caserma, non lo dimenticheró mai. I veterani ci accolsero e uno di loro che indossava un lenzuolo a modo di tonaca "ci confessò" e dopo ci diede la "particola", dopodiché potevamo farci crescere la barba. Tale "sacramento" era fatto di fette di patata immerse nell'urina di un mulo, raccontava Vittorio, la vita da alpino è iniziata in modo aspro ma è stata sollevata dalla gioia di condividere un "taj di vin" in locanda con nuovi amici. Eravamo come una grande famiglia. Mentre parlava, Vittorio, tra sorrisi e sguardi nostalgici, continuava a raccontare momenti di giovinezza. —Gli artiglieri erano fantastici, riuscivano a smontare trasportare le parti del cannone con i muli e lo assemblavano in sicurezza, in modo che il primo colpo potesse essere sparato in soli 55 secondi. Non ne parliamo di quando abbiamo dovuto caricare gli zaini e affrontare sentieri sepolti dalla neve. Non è facile essere un alpino. Un conflitto bellico in montagna è uno dei più pericolosi; devi combattere e sopravvivere anche alle condizioni meteorologiche e terreni difficili. Con entusiasmo, ha continuava il suo relato: — Non posso dimenticare pendii ripidi, gole e aree dove nemmeno gli animali da soma potevano arrivare. Tutto comporta uno sforzo enorme e organizzazione logistica. Attualmente ci sono elicotteri, ma a volte non funzionano a causa di problemi climatici ma gli alpini ci arrivano comunque! E poi arrivò il 10 giugno 1940; Mussolini dal balcone di Piazza Venezia dichiarò guerra. Ad ottobre di quell'anno la Divisione Julia integrò l'Armata del Po e partì verso Grecia e Albania. I ricordi di Vittorio erano molto eloquenti; le condizioni climatiche e del terreno, dovute alle grandi tempeste, furono tremende. — Fu durissimo quel periodo che terminò dopo l'attacco tedesco all'inizio di aprile 1941. Ciò permise fare un'avanzata e liberare dei soldati. Terminate le operazioni in Grecia, l'8° Reggimento Alpini si imbarcò per rientrare a Udine. Nel 1942 la nave "Galilea" con a bordo il Battaglione Gemona, fu silurata da un sottomarino briRicordi di un alpino Mario Mattiussi Classe 1919, Vittorio Treppo nacque a Tarcento, la sua "Perla del Friuli" vicino alle Alpi. All'età di 20 anni fu chiamato per il servizio di leva nel Corpo degli Alpini, 8° Reggimento, Battaglione Cividale.

"Sono stato fortunato a sopravvivere alla disastrosa ritirata con enormi perdite nel reggimento. Eravamo più di 2577 uomini e siamo rientrati in pochissimi." Vittorio Treppo in divisa militare. 17 _ tiro. Più volte le loro pattuglie hanno raggiunto le nostre linee. Durante quelle settimane la Divisione si ridusse, dissanguata in una lotta continua per mantenere il la propria posizione. Intanto il Don, ormai congelato e resistente, diventava transitabile per i carri armati ed è noto cosa accadde quando i russi contrattaccarono. – Quando diedero l'ordine di ritirarsi, era troppo tardi; le truppe russe ci avevano teso una trappola mortale nelle retrovie enon c'era via di scampo, se non quella di sfondare. L'ordine di ritirarsi dal Don arrivò il 17 gennaio '43. I primi tre o quattro giorni andarono abbastanza bene. Potemmo iniziare la ritirata, ma presto chi di noi aveva i muli, dovette iniziare a lasciare parte di ciò che trasportavano, seppellendo tutto nella neve e nascondendosi di tanto in tanto. Eravamo in una valle stretta e i partigiani russi ci aspettavano dalle pendici mentre noi avanzavamo con tutto il materiale. Quegli uomini in ritirata erano 300.000, compresi rumeni, ungheresi e italiani. — Eravamo intrappolati. A Podgornoje e Popovka, venti chilometri a nord di Rossoš, il caos diventò indescrivibile. La Julia e la Cuneense dovettero sacrificarsi ancora una volta contro le forze corazzate e impedire il crollo del fianco sinistro. Abbiamo respinto i russi mentre il resto fuggiva a ovest. Eravamo esausti ma non ci fermammo a riposare perché morivi congelato. Percorrere un metro sembrava un chilometro e un secondo, un'ora. Era infinita la steppa gelata, camminavo e non sapevo con certezza se sarei tornato a Tarcento. Pensavo a sopravvivere e immaginavo di dormire in un letto con le lenzuola, sul fare una doccia calda a casa e dormire molto. Poi a tavola e a mangiare vedendo il verde della primavera, quando i campi fioriscono. Durante la ritirata, una notte ero di guardia. L'ufficiale di turno mi chiese come stavo. "Bene", risposi, "ma ho la gamba sinistra che dorme". Immediatamente mi sostituì e mandò un'infermiera che mi trasferì da un ufficiale medico, che mi esaminò e decise l'amputazione della gamba che era quasi congelata. Però mi sono opposto all'amputazione e l'ufficiale medico diede l'ordine di non toccarmi e di non somministrarmi medicine. Per fortuna un sergente mi passò degli antidolorifici e antibiotici finchè non mi caricarono su un carro armato tedesco in ritirata ed il calore del motore riuscì a salvarmi la gamba, purtroppo perdendo solo il piede. Per rientrare in Italia ci mise molto tempo ma alla fine riuscì a salire assieme ad altri feriti su un treno e, dopo alcuni giorni, ero a Roma. Dopo Nikolajewka, il 31 gennaio 1943, tutte le attività operative sul fronte russo cessarono. Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti delle unità in ritirata. I feriti gravi furono inviati in vari ospedali, poi a Schebekino alcuni di loro furono caricati su un treno ospedaliero per il rimpatrio. Gli alpini percorsero 700 km a piedi e solo pochi, nell'ultimo tratto, poterono usufruire del trasporto ferroviario. Il 6 marzo 1943 iniziarono da Gomel i trasferimenti che riportavano i superstiti in Italia. Il 15 partì l'ultimo convoglio e il 24 erano tutti in Italia. I sopravvissuti della Julia erano 3.300. A Roma fui sottoposto a sette interventi chirurgici; sono stato molto fortunato di non morire di cancrena! Questo racconto fa parte della storia dell'alpino Vittorio Treppo, sposato con Albertina Giacomini, prozia di Teresa e Loredana, che nel primo dopoguerra visse a Pantianicco nell'ultima casa di via del Corno. Dopo aver emigrato in Argentina con tutta la famiglia nel 1950, nei suoi ultimi anni di vita, quando si parlava di episodi di guerra, cominciava a singhiozzare e gli era impossibile continuare a parlare. In Argentina fu membro della Sezione ANA locale e furono i suoi compagni veterani a dargli l'ultimo addio attorno alla bara dove era stato collocato il suo cappello alpino assieme alla bandiera italiana e friulana. "La vita dei morti è nella memoria dei vivi" disse Marco Tullio Cicerone ed è per questo motivo che, in questo momento storico ho voluto ricordare le sue parole e la sua storia."

MARIO MATIUSSI

Ringraziamo tanto Mario Matiussi, l'amico, il compagno di vita e di collettivitá, l'Ingegnere, uno di quei connazionali che, pur nato all'estero, ci ha sempre regalato e, per fortuna, ci continua a regalare, quegli spezzoni di storia italiana, friulana, quel sangue che squote i ricordi, le tradizioni, i costumi e l'italianità. GRAZIE AMICO MARIO

 

AI LETTORI

ERRATA: Nell'articolo "Racconti di altri tempi: Mario Matiussi e gli alpini"pubblicato sul nostro quotidiano il giorno 6 febbraio, ho scritto l'attuale Presidente dell'EFASCE Uruguay Mario Matiussi. Da oltre un anno, la Presidente é Claudia Girardo. 

É per questo che chiedo scusa per questo sbaglio. 

STEFANO CASINI