di Lucio Fero

Stavolta è Rigopiano, ma è ormai da tempo costume di massa e valore condiviso: se un Tribunale di giustizia assolve gli accusati, allora quel Tribunale "uccide per la seconda volta" i suoi componenti "fanno schifo" e meritano solo il grido di "vergogna". I parenti delle vittime della tragedia, della strage, del delitto, dell'incidente, di quel che sia, una sola è la sentenza che aspettano e considerano giusta: la condanna. Possono aver ragione nei fatti o anche nei fatti possono aver torto in questa attesa e pretesa, ogni storia umana non è riconducibile ad uno schema fisso. Ma fisso è lo schema dei sentimenti e delle azioni: se non c'è condanna non c'è giustizia e c'è rabbia e indignazione. Entrambe raccolte e narrate come ovvie, doverose, sacrosante e nobili, insomma "giuste", da parte della comunicazione di massa. Ma se la sentenza è obbligata e obbligatoriamente di condanna, perché si va in Tribunale?

I parenti delle vittime non sono fonte di giustizia - I parenti delle vittime vivono e vivranno per sempre un dolore che non si spegne. Questo dolore rende difficile se non impossibile aspettarsi dai più tra loro il bisogno di spegnerlo quel dolore che non si spegne. Un dolore che brucia e consuma le vite di chi ha perso un parente, un figlio, una mamma, un amore. Provare a spegnerlo anche con il getto di un estintore, una sentenza con il nome di un colpevole: il dolore resterà ma sembrerà in qualche modo spiegato e a chi ha perso una persona cara sembrerà di aver in qualche misura fatto il suo dovere. Il dovere verso la vittima, verso il genitore, il figlio, la sorella, l'amore perduto. Spesso, molto spesso il dovere da assolvere e il bisogno che urge è quello della rivalsa e del senso.

Dare senso al dramma subito dando nome e cognome alla tragedia, rifiutare, respingere l'inconcepibile il troppo faticose e doloroso da concepire e cioè che il dramma e la perdita non siano solo e soltanto l'esito infame di negligenze e infamità altrui. Rivalersi nei confronti del dolore dando identità e nome e cognome alla sua fonte. Tutto ciò è evidente e comprensibile da parte dei parenti delle vittime, tutto ciò appartiene a pieno titolo alla sfera dell'umano. Ma proprio per questo i parenti delle vittimi non sono, non dovrebbero essere fonte di giustizia. Sono anzi i parenti delle vittime, proprio perché tali, l'istanza che fonte di giustizia non è. Chiedono, esigono, hanno ragioni e diritti che non attengono alla giustizia di una sentenza e di un Tribunale: sollievo, compassione, comprensione, sostegno, aiuto e bisogno di senso per l'amputazione che la loro di vita ha subito. Tutte cose che la Giustizia, quella delle leggi e dei Tribunali, non è tenuta a fornire. Se le fornisse, a richiesta, sarebbe Tribunale del popolo che commina condanne letteralmente a furor di popolo. E il furore, di popolo o di gente, non è neanche lontanamente giustizia. La giustizia dei tribunali e i tribunali di giustizia sono nati e sono lì proprio per fare da argine e impedire il furor di popolo o di gente.

Il grande complotto dei Tribunali - A meno che non si supponga un grande, permanente e pervasivo complotto e inciucio tra Tribunali, magistrati tutti e potenti tutti e imprecisati, il costume di massa e il valore condiviso di gridare rabbia e indignazione per ogni assoluzione, il comandamento del vietato assolvere non hanno il diritto di chiamarsi giustizia. E andrebbero raccontati per quello che sono: sentimenti, emozioni, rispettabili e umanissimi sentimenti e emozioni. Ma non testimonianze di verità, vere sentenze al posto di quelle "vergognose" dei Tribunali. Che in chi è ferito dal dolore sia smarrita e spenta ogni nozione e condivisione di cosa sia e perché esista la giustizia delle leggi e dei Tribunali è, come detto, comprensibile e giustificabile. Che tale ignoranza e disprezzo per la giustizia sia canone e patrimonio del cosiddetto cittadino comune è colpa, scempio perpetrato da chi si occupa e maneggia la pubblica convivenza e cioè i politici e i comunicatori, stavolta i secondi più colpevoli, sì colpevoli, dei secondi.