di ENZO GHIONNI
Stellantis concentrerà i propri investimenti nel settore automotive negli Stati Uniti.
La notizia dovrebbe essere di primo piano per il nostro Paese, se non si tenesse conto che da decenni la famiglia Agnelli ha di fatto scelto la strada della desertificazione industriale italiana, dopo aver ricevuto dallo Stato un patrimonio produttivo intero.
Ma la logica del gruppo, e il modo di intendere il ruolo dell’impresa, si comprendono ancora meglio guardando a ciò che è accaduto nell’editoria. È lì che il “metodo Agnelli” si è mostrato in tutta la sua chiarezza: acquisire, accentrare, spogliare, dismettere.
Circa cinque anni fa, la famiglia decise di acquistare dai figli di Carlo De Benedetti le testate del gruppo Gedi, fondendole con “La Stampa” e “Il Secolo XIX”.
Un’operazione che sembrava voler rafforzare il sistema dell’informazione, ma che si è rivelata — col senno di poi — il primo passo verso un lento smantellamento.
Il gruppo Gedi portava in dote “La Repubblica”, “L’Espresso” e una costellazione di quotidiani locali che, per decenni, avevano rappresentato l’eccellenza del giornalismo territoriale italiano. Ma appena completata la fusione, la nuova proprietà — favorita anche da un orientamento dell’Autorità per la concorrenza e per il mercato — ha iniziato a disfarsi delle testate: “La Città” di Salerno e “Il Centro” di Pescara sono state cedute a piccoli imprenditori locali, e le relative redazioni sono finite in un vortice di crisi contrattuali, licenziamenti, ricorsi e indagini delle Procure.
Poi è arrivato il turno di “L’Espresso”, un settimanale di opinione che ha fatto la storia dell’informazione italiana, e via via di tutte le testate locali: “Il Tirreno”, “La Nuova Ferrara”, “La Gazzetta di Mantova”, “La Provincia Pavese”, “Il Mattino di Padova”, “La Tribuna di Treviso”, “Il Messaggero Veneto”, “Il Piccolo” di Trieste e molte altre.
Anche “Il Secolo XIX” ha cambiato proprietà. Almeno a Genova i giornalisti hanno trovato come controparte un editore affidabile.
Quello che resta oggi è un panorama desolato: decine di giornalisti in bilico tra cassa integrazione e incertezza, e la sensazione diffusa che la libertà di stampa e il lavoro giornalistico siano diventati variabili sacrificabili.
È questa la costante del metodo Agnelli: l’impresa non come comunità produttiva ma come leva finanziaria; i lavoratori non come risorsa, ma come elemento accessorio.
Lo schema è lo stesso dell’auto: si chiudono stabilimenti, si spostano investimenti, si lascia al territorio il conto sociale da pagare.
Eppure l’editoria, più dell’automotive, tocca un nervo civile. Dietro ogni giornale ceduto o chiuso non c’è solo un’azienda in meno, ma una voce del Paese che si spegne, un gruppo di professionisti che perde tutele, un pezzo di democrazia che arretra.
Il pluralismo non è un valore astratto: si costruisce anche con i contratti rinnovati, con le redazioni vive, con giornalisti che possano lavorare senza la paura di finire disoccupati da un giorno all’altro.
Ecco perché l’operazione Gedi non è soltanto un fatto industriale: è un passaggio culturale che racconta l’idea di impresa che la famiglia Agnelli ha imposto in questo Paese.
Come nell’auto, così nell’editoria: dove passano, distruggono — lavoro, competenze, memoria.
E chiamano progresso ciò che, in realtà, è solo un elegante modo di fare macerie.
