di FRANCO MANZITTI
Davanti alla coste del Venezuela c’è una portaerei americana. L’ultima minaccia di Trump al regno dittatoriale di Maduro e soprattutto ai narcotrafficanti.
Essi hanno trasformato il ricco paese sudamericano nel cuore della loro potenza che domina l’America Latina.
Qui dietro lo schermo del regime postchavista di questo dittatore di Caracas che ha perso nettamente le ultime elezioni ed è rimasto al suo posto.
Vendendo la sua sicurezza ai narcos (e alla Russia e alla Cina) e perseguitando i vincitori delle elezioni.
Si contano già assalti e scontri a fuoco tra le spedizioni Usa e i narcos intorno alle coste di questo incredibile paese, pieno di risorse petrolifere e non solo, e sciagurato, dal quale negli ultimi anni 8 milioni di cittadini sono scappati per i rigori del regime.
Ma il Venezuela non è il solo Stato sudamericano a bollire in un subcontinente un po’ dimenticato negli scossoni della geopolitica di oggi.
C’è come un cambio politico che investe molti paesi in qualche modo sotto l’ombra di un nuovo tentativo di controllo Usa, che traguarda l’America del Sud come una grande periferia della sua politica imperiale.
Dal Venezuela all’Argentina
A incominciare dall’Argentina. dove il clamoroso e inaspettato successo alle elezioni parlamentari di Xavier Milei, il presidente anarco liberista, è stato salutato dal leader americano come un suo personale risultato, premiato con i 50 miliardi di dollari subito versati nelle casse argentine per colmare il deficit di questo grande paese, che sta affrontando una svolta storica.
Milei è riuscito a sconfiggere elettoralmente il peronismo, che è il sistema di potere dominante in Argentina dagli anni Cinquanta, intervallato solo dai regime militari, drammaticamente vissuti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, fino alla guerra all’Inghilterra per le isole Falkland-Malvinas contro la Thatcher, ovviamente perduta, e alle violenze della repressione che portò a 30 mila desaparecidos giustiziati dai militari dei generali assassini Videla e Massena e dalla loro giunta. Fatti sparire nel nulla o gettati dagli aerei militari nelle acque gelide del Sud-Sud con i pesi ai piedi.
Tornati a elezioni libere e a un’altra parentesi più democratica gli argentini sono poi di nuovo ripiombati nel peronismo soft di Carlitos Menem e poi in quello padronale e familistico della famiglia Kirckner, prima il marito Nestor, poi la moglie Kristina, la nemica di Papa Bergoglio, ancora in ballo e sconfitta proprio nelle elezioni di un mese fa.
Oggi il Milei, questa figura che esce da ogni schema con la sua politica di furibondo ridimensionamento del sistema economico e burocratico che reggeva il paese, simboleggiato dalla motosega che imbracciava nella sua campagna elettorale, sembra vincente.
Ha drasticamente ridotto il tasso di inflazione che si stava mangiando letteralmente l’Argentina, ridimensionato l’apparato burocratico-amministrativo, “tagliando “ decine di migliaia di posti di lavoro pubblici, riducendo il numero dei ministeri e rimettendo in corsa le imprese.
In compenso il paese soffre, perché il tasso di povertà è salito. Ma ora parte la seconda fase, rinforzata dai miliardi e dall’appoggio Usa.
Intanto nel paese confinante, al di là delle Ande, in Cile, un personaggio che sembra la sua fotocopia è in corsa per vincere le elezioni attesissime, che questo altro paese dalla storia politica così tormentata sta per affrontare in un clima tesissimo.
Il Cile fermo a mezzo secolo fa
L’epigono cileno di Milei è Jhoannes Kaiser, un cinquantenne che ha fondato il partito libertario con principi simili a quelli argentini e negli ultimi sondaggi sta rimontando la corsa per conquistare lo storico palazzo della Moneda a Santiago.
In Cile si vive ancora una volta uno scontro tra le ombre del suo passato, con tre candidati di Destra contro Janette Jara, ex operaia comunista, considerata vincente al primo turno con il 26 per cento, ma sconfitta nel ballottaggio, dove le destre si coalizzerebbero sicuramente contro di lei, che in caso di vittoria riporterebbe, per la prima volta una comunista a governare in Cile, dopo cinquanta anni, quando quel partito era rappresentato da molti ministri, insieme al presidente Salvator Allende, nel governo di Unitad Popular, affondato nel sangue del golpe di Pinochet.
Contro questa donna, che viene dalla periferia di Santiago e da origini umili, oltre a Kaiser si schierano sopratutto Josè Kast, di origine tedesche, figlio di immigrati fuggiti dalla Germania e dai nazisti, molto vicino alle idee del dittatore sanguinario Ugarte Pinochet, autore di quel golpe, che rovesciò Allende nel settembre del 1973.
C’è un’altra candidata, che rappresenta una destra più moderata e conservatrice, Evelyn Matthey e che corre, però, probabilmente solo per portare voti nel ballottaggio al candidato del fronte anticomunista che avrà avuto più voti nel primo turno.
Il Cile esce da cinque anni un po’ deludenti di governo di Gabriel Boric, origini croate, leader di Izquierda Autonoma, che vinse nel 2022 le elezioni presidenziali diventando il presidente più giovane del Cile, con i suoi 36 anni e sconfiggendo proprio Josè Kast, il candidato erede in qualche modo di Pinochet, che è di nuovo in ballo oggi.
Il Cile oscilla molto nelle sue scelte di vertice da anni intorno al suo passato tragico della dittatura militare. E stato governato a sinistra e anche a destra, da presidenti moderati, come Sebastian Pineda, il liberale predecessore di Boric.
La sua politica, che si spostava come in un pendolo, non ha mai risolto del tutto quel passato duro, perché le politiche di sinistra o di centrosinistra non hanno mai riportato il paese a una guida economicamente solida, con grandi manifestazioni di protesta di operai e studenti, lasciando irrisolto da un punto di vista anche costituzionale il tempo dei generali repressori.
Se Kaiser si imponesse, il cono sud del subcontinente avrebbe, tra Cile e Argentina, lo stesso tipo di politica “libertaria”, probabilmente rivoluzionando anche i rapporti storici tra i due paesi, divisi dalle Ande e dalle vette meravigliose della Cordigoliera e non solo.
Non sono lontanissimi i tempi nei quali i generali argentini sognavano di “andare a bagnarsi gli stivali nel Pacifico”, nei loro sogni di espansione verso quel paese, stravolgente nella sua bellezza tra le montagne e il mare, una striscia di terra sottile, ricca di miniere di rame e di altre terre rare, che oggi fanno gola a tanti, dal deserto de La Serena ai ghiacci del Sud giù giù verso il capo di Buona Speranza.
Tra i programmi duri di Kast in Cile c’è quello di chiudere le frontiere con la Bolivia, un altro paese in ebollizione pericolosa, dove le recentissime elezioni hanno visto vincere Luis Arce, leader di Mas, il movimento della sinistra in qualche modo erede di Evo Morales, il capo andino, presidente per tre mandati consecutivi, rappresentate di una sinistra forte e rivoluzionaria, espressa proprio dal popolo delle montagne, contro quello della pianura e della giungla, che spiega la storica spaccatura di questo altro paese lacerato per anni da contese politiche sanguinose. Basti pensare che Morales vive in esilio di Argentina, dopo che il suo quarto tentativo di conquistare il potere era finito in conflitti armati con morti e feriti.
Oggi questo personaggio pittoresco e non solo assomiglia un po’ al Peron argentino degli anni Cinquanta, che dopo la sconfitta e l’esilio, sognava di tornare, di “volver”, come poi accadde rovinosamente per lui all’inizio degli anni Settanta.
Pochi mesi di governo, con a fianco un’altra donna, dopo la mitica Evita, morta a 36 anni di leucemia, questa volta Isabelita che fini con lo spodestarlo, affiancata dal dentista Campora.
Anche Morales sogna il ritorno, ma in qualche modo la democrazia boliviana tiene, impedendogli un altro mandato e lui si accontenta di incidere da lontano.
In questo saliscendi di governi e di rivoluzioni nello scacchiere sudamericano resta anche l’Ecuador, un paese ricchissimo di possibilità economiche, a partire dalle coltivazioni di cacao e la pesca. Ma è il paese più in preda alla violenza di tutto il Sudamerica, dove il presidente Daniel Oboa ha dovuto conclamare “il conflitto interno armato”, davanti alla guerra vera e propria scatenata dalle bande dei narcos, che hanno in pratica in pugno il paese. In lotta tra di loro e contro lo Stato queste bande stanno terrorizzando l’Ecaudor, soprattutto nelle città importanti come Guajahill e Quito.
Hanno addirittura assaltato la Tv pubblica, irrompendo in una trasmissione in diretta, armi in pugno e volti mascherati. Oboa è un presidente oligarca, liberista, conservatore, che ha tappezzato il paese di suoi giganteschi ritratti, ma non riesce a fermare la violenza devastante dei conflitti tra le bande come “los Lobos” e “Tiguoneros”, in una società terrorizzata e travolta anche dagli scioperi e dalle manifestazioni di piazza, in un contesto politico che non trova pace e si divide da quando è finito il regno di Correa, il leader più forte del passato, oggi in esilio.
Vivere in Equador diventa, quindi, un incubo da cui il paese non riesce a uscire. Lo prova l’emigrazione massiccia. In Liguria oggi vivono quasi 50 mila ecquadoregni.
L’opposizione che nelle ultime elezioni era rappresentata da una donna, Lucia Gonzales, evangelica e populista in un modo diverso da Noboa, sconfitta anche per alcune sue prese di posizioni religiose.
Poi è chiaro che la potenza dominante in questo quadro è il Brasile, sul quale governa di nuovo Lula Ignacio da Silva, oggi ottantenne, una figura che si staglia non solo per le sue origine di contadino mutilato in giovane età sul lavoro, fondatore del Partito dei Lavoratori, eletto già tre volte, incarcerato per tre anni tra una presidenza e l’altra.
Oggi Lula è diventato un leader mondiale, uno dei fondatori del Bric (Brasile India Cina), i paesi emergenti fuori da quello che era il contesto geopolitico mondiale prima di oggi. Il suo Brasile, dopo la presidenza del capitano Bolsonaro, il militare di estrema destra, che lo ha governato per cinque anni, prima di cadere e di finire condannato a 27 anni per tentato golpe, è di nuovo alla ribalta come capofila delle battaglie ambientali, contro i negazionisti del cambio climatico.
Il Brasile sta al centro di questo equilibrio climatico, grazie al fatto che nel suo territorio c’è l’Amazzonia, il polmone del mondo con le sue sterminate foreste e gli immensi corsi d’acqua. Bolsonaro stava di nuovo disboscando le foreste amazzoniche, per lasciare spazio a grandi speculazioni su quel territorio.
Lula le ha in parte fermate, abbassando il taglio della foresta da 27 a 4 milioni di metri quadrati e ora è anche il leader di Cop 30, l’assise che riunisce a Belem migliaia di delegati di tutto il mondo per lottare contro la tragedia del cambio climatico, che sta già travolgendo sopratutto le popolazioni africane e caraibiche .
Ma Lula ha 80 anni e quale futuro può aspettarsi questo grande paese, considerato quello che era capitato con Bolsonaro e gli anni di dominio nell’epoca dei generali tra gli anni Sessanta e Settanta? Tra scandali che hanno travolto la sinistra e i golpe della destra, l’equilibrio di quello che una volta era definito “il gendarme del Sudamerica”, appare sempre in bilico.
Come tutto il subcontinente che la geopolitica di oggi esclude se non per la supposta influenza degli Stati Uniti .
Eppure sono paesi dove in gran parte l’immigrazione italiana ha avuto il suo ruolo importante, soprattutto in Argentina, in Cile, in Perù, nel piccolo Uruguay.
Non sono, in fondo, solo “il mondo alla fine del mondo”, come aveva definito l’Argentina Bergoglio, papa Francesco, nel momento della sua elezione, ma un attore importante nella politica di oggi e lo saranno sempre di più.











