di Gabriele Carrer

Il 24 febbraio 2022 è una data spartiacque per i rapporti tra la Russia e l'Occidente. Ma anche per la carriera di Sergey Lavrov.

Fino a quel momento, quello dell'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe agli ordini di Vladimir Putin, il ministro degli Esteri russo si era dimostrato con gli interlocutori occidentali sì duro e un po' livoroso ma anche autorevole, affidabile, disponibile al dialogo e cordiale, pronto perfino a gag con altri diplomatici in eventi internazionali o alla battuta per stemperare situazioni tese durante le conferenze stampa. È stato così anche in occasione dell'incontro del 17 febbraio scorso con l'omologo italiano Luigi Di Maio in visita a Mosca: Lavrov ha tenuto banco per buona parte dei tre quarti d'ora davanti ai giornalisti, utilizzando le rodate armi dell'esperienza e del fisico per rubare la scena (è alto 1,88 metri e ha una stazza massiccia), scippando le domande che erano rivolte al collega ma anche sottolineando l'importante ruolo dell'Italia nel contesto multilaterale.

Sei giorni più tardi, poche ore prima dell'inizio dell'invasione dell'Ucraina, all'Occidente, e direttamente all'Italia, si presenta un Lavrov diverso da quello conosciuto negli ultimi 28 anni, 10 dei quali in cui è stato ambasciatore alle Nazioni Unite di New York e gli altri, gli ultimi 18, li ha passati da ministro degli Esteri. Un nuovo scambio, stavolta a distanza, tra lui e Di Maio. Quest'ultimo, nel corso di un'informativa al Senato, spiega la linea del governo (con il presidente del Consiglio Mario Draghi che allora era in predicato di recarsi a Mosca di lì a pochi giorni): "Riteniamo (...) che non possano esserci nuovi incontri bilaterali con i vertici russi finché non ci saranno segnali di allentamento della tensione". A stretto giro arriva la dura replica, via agenzie di stampa, di Lavrov: "È una strana idea della diplomazia. È stata inventata proprio per risolvere situazioni di conflitto e di tensione, non per fare viaggi a vuoto in giro per le nazioni o per assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala. I nostri partner occidentali devono imparare a usare la diplomazia in modo professionale".

Tutti hanno sempre definito un maestro della diplomazia questo settantaduenne nato a Tbilisi, in Georgia, con il cognome Kalantaryan a cui poi ha preferito quello della madre, formatosi al prestigioso Mgimo (l'Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali, fucina dei diplomatici russi definita da Henry Kissinger la "Harvard russa") e soprannominato "signor Niet". Dunque, che cos'è cambiato per lui e in lui?

L'impressione di chi lo osserva da vicino è che già verso metà dell'anno scorso il suo peso nel governo russo fosse in declino e che lui stesse perdendo posizioni rispetto a Sergei Shoigu, ministro della Difesa. Un esempio: a differenza di quest'ultimo, Lavrov non figura tra i siloviki, il cerchio magico del Cremlino che fa riferimento al capo, Vladimir Putin, e a Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio di sicurezza.

Sull'Ucraina il ministro ha cercato di tenere il suo punto, insistendo sull'importanza del dialogo all'interno del governo di Mosca e con gli altri Paesi. Salvo poi capitolare e trasformarsi in ciò che abbiamo visto durante l'intervista concessa a "Zona Bianca" su Rete 4: uno dei rappresentanti del governo russo con la retorica più bellicista, violenta e oltranzista. Il che fa ben poco onore a chi di mestiere fa il ministro degli Esteri e alle spalle ha una lunga e apprezzata carriera.

Lui non ha mai fatto fughe in avanti, si è semplicemente adeguato alla linea del Cremlino. Com'è richiesto a un diplomatico e a un ministro degli Esteri. C'è chi ipotizza perfino che non fosse al corrente dei reali piani del Cremlino mentre cercava il dialogo con l'Occidente anche nelle ultime ore prima dell'invasione. Poi c'è stata quella mossa militare ordinata dal Cremlino e la sua svolta, frutto di una situazione di potere in cui il capo è difficilmente gestibile, tutti gli altri sotto fanno a gara ad adeguarsi e lui, come ministro degli Esteri, è chiamato a rappresentare la posizione ufficiale.

In queste settimane di guerra è un Lavrov diverso: invecchiato, imbolsito, poco sul punto, prolisso, perfino ripetitivo. L'ha dimostrato a Rete 4.

Ma la sua parabola è in declino da alcuni anni. Sembra seguire quella dei rapporti tra Est e Ovest. D'altronde, è un diplomatico e diventato ministro votato al dialogo, una caratteristica che si è palesata agli occhi occidentali durante il suo mandato alle Nazioni Unite, dove ha conosciuto ed è diventato grande estimatore del defunto ambasciatore italiano Francesco Paolo Fulci ("Avresti dovuto parlare con l'ambasciatore Fulci per scrivere questo pezzo", mi ha detto una delle fonti consultate). Non è un caso che, con la guerra in Ucraina che ha già profondamente mutato i rapporti tra la Russia e l'Occidente, lui sia, a detta di molti, uno dei membri del governo russo più vicini al pensionamento. Sicuramente è uno degli ultimi diplomatici profondamente sovietici rimasti a Mosca in un periodo di forte spinta imperialistica di Putin.

Sono passati ormai 18 anni da quando ha preso il posto di Igor Ivanov ed è diventato uno dei protagonisti di una stagione apertasi con speranze costruttive ma andata a deteriorarsi con il passare tempo. Basti pensare che in diverse occasioni, anche a inizio anni Duemila, lo stesso Putin, chissà se perché convinto o per volontà di inviare segnali di apertura al dialogo, ha più volte spiegato che l'allargamento della Nato non rappresentava una minaccia per la Russia. Tra il 2004 e il 2008, anno della proposta di un Trattato di sicurezza paneuropea avanzata dall'allora presidente russo Dmitrij Medvedev (Putin è primo ministro in quell'alternanza con Medvedev pensata per garantirsi il potere), Lavrov è il portavoce di una politica estera di ingaggio con l'Occidente. Ma le posizioni russe iniziano a irrigidirsi. A inizio 2007 Putin, che è di nuovo presidente, pronuncia alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco un duro discorso contro gli Stati Uniti e la Nato, accusando Washington di voler imporre i propri standard ad altre nazioni. Dopo un anno le truppe russe invadono la Georgia. Altri sei anni e la Russia annuncia l'annessione unilaterale della Crimea. In quegli anni Lavrov tenta di mantenere aperti i canali di dialogo ma l'esclusione dal G8 a partire dal 2014 rappresenta un ostacolo difficile da superare nonostante gli anni di Donald Trump alla Casa Bianca segnati da una certa apertura statunitense verso la Russia.

Il reset nell'era Obama e la collaborazione quasi inevitabile su alcuni dossier come la lotta contro lo Stato islamico si sono rivelati poi un'illusione. Quando lui e John Kerry, uniti dalla passione per l'hockey su ghiaccio, festeggiano il successo della maratona di 13 ore di colloqui sulla Siria portando pizza e vodka ai giornalisti, la stampa occidentale lo esalta. È il settembre 2016 e molti ricordano la sua disponibilità con i giornalisti al Palazzo di vetro, con cui ha spesso scambiato battute con un whisky e una sigaretta in mano, sfidando un divieto di fumo imposto da Kofi Annan, allora segretario generale alle Nazioni Unite.

Sono passati soltanto sei anni e oggi Lavrov è visto come un paria dagli stessi Stati Uniti e dai loro alleati. Contro di lui si è schierato perfino l'uomo che anni lo ha nominato, neppure quarantaduenne, viceministro: Andrey Kozyrev, ministro degli Esteri dal 1990 al 1996 sotto Boris Yeltsin, l'unico filo-occidentale che la Russia abbia mai avuto in quel ruolo. "Mi copriva le spalle. Oggi, mi guarderei le spalle se lui fosse dietro di me", ha scritto su Twitter il giorno dopo l'invasione dell'Ucraina da parte delle forze russe pubblicando una foto di loro due negli anni Novanta.

La guerra ha colpito anche la vita privata di Lavrov. Un rapporto stilato nel settembre scorso dalla squadra investigativa dell'attivista russo Alexei Navalny è tornato di grande attualità. Si intitola "Yachts, tangenti e un'amante: quello che il ministro Lavrov nasconde" e racconta di un uomo arricchitosi sul libro paga di Putin, con un matrimonio parallelo (la seconda "moglie non ufficiale" sarebbe l'attrice e ristoratrice Svetlana Polyakova, con proprietà in Russia e nel Regno Unito per circa 13,6 milioni di dollari) e una figliastra, Polina Kovaleva, che lavora per il colosso energetico russo Gazprom dopo aver studiato a Londra, dove vive in un appartamento da 4,4 milioni di sterline appena fuori Kensington High Street. Lei è finita nella lista nera del Regno Unito, sanzionata dal ministero degli Esteri britannico.

Forse anche per queste conseguenze sulla sua vita privata, Lavrov avrebbe iniziato a bere, dicono a Mosca malelingue a corto di fantasia, evocando la fine di molti ex alti esponenti dell'Unione Sovietica. Non è felice e vorrebbe lasciare. Ma non è il momento giusto. Non lo è stato nel 2017, quando nove diplomatici russi di servizio all'estero sono morti inaspettatamente in altrettanti mesi, quelli successivi alle elezioni presidenziali statunitense vinte da Trump con il sospetto dell'interferenza russa. Non è lo tantomeno oggi, con la guerra in Ucraina che non permette a Putin turbolenze nel governo e che sembra aver cancellato ogni traccia del Lavrov diplomatico apprezzato anche in Occidente. Ora Lavrov è sempre più simile al primo "signor Niet" della diplomazia di Mosca, Andrei Gromyko, il più longevo ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica (ha ricoperto l'incarico dal 1957 al 1985), così ribattezzato per il suo frequente ricorso al veto durante le riunioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la sua intransigenza.