di MARCO BENEDETTO
Ebbero il “coraggio di pronunciare il No al nazifascismo” e pagarono per questo un “prezzo personale altissimo”.
Il Fatto riporta il discorso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha ricordato così i militari italiani che furono internati nei campi di concentramento tedeschi durante la II Guerra Mondiale dopo l’ armistizio dell’8 settembre.
Uomini che subirono “al termine della guerra una sorta di oscuramento della loro resistenza, travagliata ed eroica”. Eppure, ha sottolineato il capo dello Stato, con “quel No ai fascisti di Salò e alle truppe di occupazione difesero la dignità e il senso autentico dell’amor di Patria quando lo stesso vertice dello Stato si era dissolto”.
I militari internati: la loro Resistenza
Fu “resistenza”anche la loro, di fronte al fascismo che “si contrappone di fatto alla nazione” e “spinse quanti nella cultura patriottica e risorgimentale erano stati formati a cercare una nuova casa da edificare per esprimere i sentimenti del Paese”.
Per “lungo tempo”, ha sostenuto Mattarella, le “vicissitudini e la condotta dei circa 650mila militari internati sono rimasti in ombra, malgrado il numero dei caduti, le sofferenze patite da tutti loro, i coraggiosi rifiuti alle pressioni sempre più minacciose dei carcerieri, le reti di solidarietà costruite fra italiani”. La loro “resistenza” ebbe un “significato e una valenza di altissimo rilievo” sul piano “valoriale, morale” e “anche su quello concreto”.
Aggiungo una testimonianza personale. Tre miei cugini nati negli anni ‘20, indossarono la divisa. Uno di loro non è tornato dalla Russia, due finirono un campo dí concentramento dopo l’8 settembre. 40 anni dopo quella esperienza era impressa nella loro memoria: sedurre la cuoca per una patata.
Importante testimonianza è “Il quaderno nero” di Giovanni Giovannini: La memoria di chi ha vissuto la prigionia, come ha scritto Maria Pia Rossignaud.
Giovannini fu colto dall’8 settembre mentre si trovava giovanissimo caporalmaggiore in Costa Azzurra.
I tedeschi offrono ai soldati italiani 3 alternative: restare a combattere per la Germania; restare a lavorare per la Germania; essere trasportati in Germania come prigionieri.
Sceglie quest’ultima: passerà 20 mesi in vari campi tedeschi fino all’aprile del ’45. In quei 20 mesi tenne un diario: “Quelle ore passate lì io le ho sempre considerate un’ora di vergogna, perché non siamo stati capaci, s’è sfasciato tutto, i generali sono spariti… Nessuno li ha più visti. Ecco però, quel giorno lì incomincia una redenzione che non è solo quella della lotta partigiana in Italia, ma di questi seicentomila disgraziati, quando bastava andare nella baracca a firmare dal sergente tedesco e accettare di aderire alla Repubblica di Salò ed essere rimandati a casa. C’è una forma di eroismo: tutti intestarditi a costo della fame, dell’abbrutimento, pur di essere contro”.
Il diario di Giovannini
Un quaderno dalla copertina nera riposto in un cassetto insieme a qualche fotografia e a qualche lettera ingiallita. E’ un diario di prigionia che riprende vita, dopo sessant’anni, per raccontarci storie d’amore e di crudeltà, di coraggio e di orgoglio sullo sfondo della più grande tragedia umana del ‘900.
Lo ha scritto un caporalmaggiore di 22 anni, appunto Giovanni Giovannini, che negli anni seguenti sarebbe diventato, passo passo, inviato speciale de “La Stampa” di Torino, vicedirettore dello stesso giornale, proconsole dell’Avvocato nell’impero editoriale degli Agnelli, presidente dell’Ansa e presidente della Federazione degli Editori di giornali per oltre vent’anni.
Giovanni lo dedicò “ai seicentomila soldati italiani che, prigionieri in Germania, dal 1943 al 1945, seppero scrivere una pagina degna di un onorevole ricordo” , ma anche – indirettamente – alla memoria di Larissa, una studentessa ucraina protagonista delle ultime drammatiche pagine del diario, una ragazza che il caporalmaggiore Giovannini non riuscì a salvare.