di Alessandro Camilli

Michele Merlo morto a 28 anni per le conseguenze di una leucemia detta fulminantemorto nonostante un intervento chirurgico. Cosa sia esattamente una leucemia fulminante ovviamente non è nozione di tutti, quali siano le probabilità e le modalità per uscirne vivi non è competenza se non medica.

C'è un vasto campo nel quale "l'opinione" non dovrebbe addentrarsi, dovrebbe astenersi per evidente impossibilità a manifestarsi. E invece è quasi automatico un riflesso d'opinione che attribuisce in parte o in tutto ogni morte ad errore o negligenza medica. Anche stavolta, tanto più trattandosi di una morte di un giovane.

E' un percorso culturale lungo quello che ha portato il dolore per una morte ad essere inscindibile o quasi con la rabbia per quella stessa morte. Un cammino lungo il quale abbiamo tutti cominciato e poi definitivamente usato per la morte l'aggettivo "assurda".

Sempre e comunque assurda la morte la raccontiamo, assurdo è dunque l'evento più normale perché universale e ineluttabile. Assurda la morte: chiamarla così in una sorta di implorazione-scongiuro semantico perché non tocchi a noi e ai nostri cari e neanche a chi conosciamo. Se colpisce vicino, la morte la bolliamo come assurda.

Altra tappa: l'espulsione della morte dal campo della visibilità. Si muore in ospedale, le ritualità funebri sono omaggi stringati nel tempo e nello spazio, la morte non viene esposta. Terza tappa del percorso culturale: la morte come sostanziale insuccesso, quasi fallimento nell'impresa del vivere.

Questo percorso culturale ha condotto al riflesso per cui la morte merita e chiama non solo dolore per la perdita ma anche rabbia per la perdita intesa come spoliazione. Spoliazione che per esser tale deve avere un responsabile, anzi un colpevole.

Si aggiunga la nozione della guarigione come merce garantita acquistata nel contratto con la medicina, il medico, la sanità tutta e si avrà il riflesso diffuso, quasi obbligato, per cui una morte è sempre colpa di qualcuno, qualcuno che nel mondo medico non ha fatto ciò che doveva e poteva.

Michele Merlo prima del ricovero d'urgenza era stato in ospedale dove non avevano diagnosticato la gravità della situazione a venire. La famiglia oggi dice alla stampa: "Un medico accorto avrebbe colto...i sintomi segnali tipici della leucemia: forte emicrania, dolori al collo, placche in gola...se l'avessero visitato...".

Probabilmente la semplificazione giornalistica ci mette del suo ma di certo forte emicrania, dolori al collo e placche in gola non costituiscono, anche ad occhi profani, una sintomatologia certa ed evidente di alcunché di specifico.

Il profano non sa, non deve pretendere di sapere, nessun giornalista sa da poter dire di quella sintomatologia e diagnosi. Profano di scienza e consapevolezza è anche il dolore ma ormai quasi sempre il dolore si veste di rabbia diagnostica: il parente "sa" ciò che doveva essere fatto e non è stato fatto.

E il suo indubitabile sapere, il fondamento della sua certezza è il dolore per la morte. Dolore e rabbia vanno in circuito che si auto alimenta e produce condanna per chi "deve" non aver fatto il suo dovere. "Deve" non averlo fatto, la prova è la morte. Ci deve essere una negligenza, una cattiveria, altrimenti come si spiega una morte? L'equazione tra dolore e rabbia porta all'equazione: cure adeguate sopravvivenza sicura.

Che è poi una petizione di immortalità per la cerchia dei propri affetti. Tutto ciò che non guarisce è malasanità, ogni decesso è la conseguenza di negligenza o incapacità. Un riflesso ormai obbligato, automatico, perfino percepito come dovuto nei confronti del defunto. Un riflesso il più delle volte sbagliato.