Il terzino mancino non aveva partecipato alla trasferta a Lisbona per un'articolazione dolorante e così non era sul volo di ritorno che si schiantò sulla Basilica di Superga il 4 maggio del 1949. Era l'ultimo testimone di quel gruppo di campioni che incantò il mondo
del pallone. Per guarire da quel problema si sottopose a lunghe sedute di sabbiature
a Monterosso, ma dal dolore della perdita non guarì mai. Lui si ricordava che l’ultima partita giocata dal Toro a Milano contro l’Inter, il 30 aprile del 1949, terminata in parità, che sancì lo scudetto granata, nello spogliatoio salutò uno ad uno i suoi compagni, da Bacigalupo a Mazzola, da Loik a Ossola. “Non so perché - mi disse - ma urlai i loro nomi”.

Era nato alla Spezia nel quartiere di Rebocco il 4 dicembre del 1925, non distante dallo stadio Alberto Picco. Entrato nelle giovanili dello Spezia, per affermarsi dovette giocare prima a Rapallo e poi a Voghera. A richiamarlo a Spezia nel 1946 fu un dirigente della società aquilotta che giocò con lui una partitella tra amici. Si lanciò come terzino anche se amava giocare in porta. Gli bastò un anno con i bianco-neri in serie B nel campionato 1946/47 per essere notato da Ferruccio Novo, l’inventore del Grande Torino. Era lo Spezia guidato dal genovese Ottavio Barbieri, l’ideatore del “sistema”, e ancora composto da alcuni reduci della conquista dello scudetto di guerra 1943-1944 come Costa, Rostagno, Scarpato, Amenta e Tori.

Il Toro offrì ben cinque calciatori allo Spezia pur di averlo: Enzo Fabbri, Cesare Nay, Daniele Borsato, Giuseppe Cavagnero e Tullio Maestri. Vinse così la concorrenza del Genoa e della Juventus e portò il giocatore al Filadelfia. Ma una volta là sorsero dei problemi polmonari e il trasferimento venne bloccato. Pare, in realtà, che non tutti i dirigenti fossero d’accordo su quel costoso scambio. Tomà fece da solo delle contro analisi e dimostrò la propria efficienza fisica. Il suo ambientamento nel Grande Torino non fu facile ma i problemi muscolari che attanagliavano Virgilio Maroso ne agevolarono l’ingresso nella formazione titolare.

Divenne così amico di Valentino Mazzola e fu la persona che gli rimase più vicino al momento del divorzio della prima moglie e delle seconde nozze del famoso alfiere granata.
Partecipò alla tournée in Brasile del Torino nel 1947 diventando un beniamino delle migliaia di emigranti italiani che vivevano nel paese latino-americano. Scherzosamente i compagni lo chiamavano “Due metri e settanta” perché i suoi rilanci erano solitamente deboli e si diceva che non superava i tre metri.

Quando l’Italia riprese il suo cammino post-bellico il Torino divenne il punto di riferimento del calcio italiano: nella primavera del 1947 il commissario tecnico Vittorio Pozzo schierò contro la Svizzera e l’Ungheria due formazioni vincenti che comprendevano rispettivamente nove e dieci giocatori granata. I loro nomi sono scalpiti nella storia: il portiere Bacigalupo, poi Ballarin, Martelli, Grazer, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ossola. Al rientro da Lisbona il trimotore Fiat G.212 delle Avio Linee Italiane trova una fitta nebbia e si schiantò contro i muraglioni di sostegno del giardino posto sul retro della Basilica di Superga. Tutte le trentuno persone a bordo morirono sul colpo. Il giorno dei funerali quasi un milione di persone scese in piazza a Torino per dare l’ultimo saluto alla squadra.

Gli unici calciatori superstiti ad accompagnare i feretri erano Sauro Tomà e Renato Gandolfi. Prima della trasferta di Lisbona Tomà riportò la lesione ai legamenti del ginocchio e restò fuori squadra. Quel problema al menisco se lo trascinò anche negli anni successivi. Restò al Torino con un sorriso smorzato e un grande rimpianto negli occhi, forse sentendosi in colpa per non essere salito su quell’aereo assieme ad un altro scampato, il secondo portiere Renato Gandolfi. Finì la carriera al Brescia al Bari con cui vinse il campionato di serie C.

Avrebbe voluto tornare a vivere a Spezia ma rimase a Torino abitando a pochi metri dallo stadio Filadelfia dove gestiva un’edicola. D’estate non mancava mai alla Spezia, lo si vedeva sul lungomare o a prendere un aperitivo dal Bar Peola con i vecchi compagni aquilotti, Borrini e Persia, Scarpato e Tommaso. Nel 1988 ha affidato i suoi ricordi e i suoi rimorsi al libro "Me grand Turin". Nel 2012 la Città di Torino gli ha consegnato il Sigillo civico.

Marco Ferrari