Ieri ha preso il via una delle più demenziali misure politiche dell’intera storia repubblicana: il "Reddito di cittadinanza". Già si preannuncia il caos, con prevedibili file chilometriche nei vari uffici postali e nei Caf, chiamati a ricevere sul territorio le domande dei milioni di soggetti richiedenti. Per non parlare dello scontro già in atto tra le Regioni e il ministero del Lavoro del prode Luigi Di Maio sulla controversa assunzione di migliaia di cosiddetti navigator, ennesimo colpo di genio di un uomo che si è fatto una solida cultura economica tra una partita del Napoli, vendendo bibite al dettaglio, e uno spettacolo di Beppe Grillo. Ma cosa possiamo ancora pretendere da un giovanotto che in pochi mesi di governo è riuscito a sconfiggere la povertà?

E in effetti, a leggere il demenziale dispositivo del principale cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, se la stessa povertà non è stata del tutto debellata, poco ci manca. Basta infatti possedere almeno 6mila euro di patrimonio mobiliare complessivo (quindi, oltre ai classici conti correnti, titoli di Stato e ogni altra forma di obbligazione, e qualsiasi tipo di investimento finanziario, assicurazioni sulla vita comprese) per entrare nel gotha delle persone benestanti, perdendo così ogni possibilità di ottenere il mitico reddito di cittadinanza. Mentre, si badi bene, con un solo centesimo di meno, ossia possedendo risparmi per 5.999,99 euro, sulla carta avrebbe diritto all’intero importo dei leggendari 780 euro mensili, nel caso non si avesse una casa di proprietà.

Ora, qualcuno dirà che i quattrini stanziati erano pochi e occorreva inserire alcuni paletti per ridurre la platea. Vero, però a parità di esborso anche una scimmia forse sarebbe riuscita ad introdurre un meccanismo di erogazione un tantino più ragionevole, rispetto alla demenziale ghigliottina pentastellata che taglia fuori senza pietà i "ricconi" a partire da 6mila euro. Ad esempio, prevedere un sistema a scaglioni, il quale tenesse conto della situazione complessiva dei soggetti interessati, contestualmente ad una riduzione del contributo massimo, avrebbe consentito di spalmare il sussidio su una platea maggiore di individui, moderando per quanto possibile la inevitabile sperequazione tra furbi e fessi. Ma al di là di una delle tante macroscopiche falle di un provvedimento che cerca di far conciliare l’inconciliabile, ossia il contrasto alla povertà con le politiche attive per il lavoro, bastava osservare i grandi numeri della nostra colossale spesa pubblica – cosa che gli unti a 5 Stelle si sono sempre ben guardati dal fare – per comprendere la follia di una ennesima legge di spesa la quale, al pari della sciagurata quota 100 sulle pensioni, il sistema Paese non poteva e non può permettersi, visto che i dati più aggiornati di cui siamo in possesso ci dicono che l’Italia impiega circa il 55 per cento del suo bilancio pubblico nel welfare.

Una somma colossale che oramai viaggia verso i 500 miliardi e che, considerando il crescente affanno della nostra economia, boccia sul nascere la falsa retorica di chi giustifica il reddito di cittadinanza con l’esigenza di metterci al passo con gli altri partner comunitari. Per dirla in soldoni, gli altri possono permettersi una misura universale per aiutare gli ultimi per il semplice fatto che in altri capitoli, vedi pensioni, spendono molto meno di noi, tradizionalmente inclini ad utilizzare il bilancio pubblico come un volano elettorale. Il resto sono solo chiacchiere e propaganda.

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