Stavo sotto il Gonfalone di Genova, appeso nel grande salone di Palazzo Tursi, ombelico della città, nella strada aurea, cuore della nobiltà storica genovese, che un po’ di timore te lo incute anche cinque secoli dopo l’apice della potenza della Repubblica.

Stavo lì, davanti a una folla di genovesi, con le telecamere delle televisioni che riprendevano, il microfono in mano e il mio libro, intitolato "Cronaca di un crollo annunciato", posato sul damasco rosso del tavolo delle grandi cerimonie, delle celebrazioni. Alla mia destra il sindaco di Genova, Marco Bucci, un uomo vigoroso, deciso, "o scindaco ch’ o cria", come l’avevo soprannominato nelle mie cronache su Blitz, il sindaco che grida, e due amici cari, Mario Paternostro e Massimo Donelli, chiamati a farmi da presentatori, giornalisti di lungo corso, "vecchi cronisti", come ci definiamo con un compiacimento che pialla snobisticamente le nostre rispettive carriere, la mia modesta, le loro più scintillanti.

Cercavo le parole giuste, il tono giusto, perché non è facile parlare di un proprio libro, di quasi 210 pagine scritte in una forma diversa dai mille articoli di una vita, degli altri libri che mi è capitato di scrivere, senza mai metterci la pancia come per questo, nato dalla forte emozione per la tragedia del Ponte Morandi e poi dalla spinta a raccontare cosa era capitato alla mia città, Genova, spezzata da quella tragedia. E poi quale diritto avevo io di raccontare così a lungo, così minuziosamente, quella tragedia consumata dieci mesi fa e che continua, perché io, giornalista un po’ passato, giornalista senza giornale, giornalista in pensione, per quanto iperattivo, con solo il proprio taccuino in tasca, la penna, la propria lunga storia professionale, diluita nei decenni?

La presentazione del libro "Cronaca di un crollo annunciato"

Ecco, era proprio nei decenni che si perdeva la mia memoria del ponte Morandi, di quella volta che mi dissero, nel lontanissimo 1989, che era un ponte che rischiava, perico loso, logorato già, malgrado la sua costruzione fosse recente, messo in bilico dalla tecnica avveniristica e senza sperimentazione con la quale era stato audacemente costruito, tra il 1964 e il 1967, con grandi arcate su solo tre stralli, pochi piloni, campate lunghissime, un chilometro e 180 metri sulla mitica Valpolcevera, la valle delle fabbriche, delle raffinerie, il passaggio a Nord Ovest della città di Genova, il collegamento con il Nord e con l’Italia occidentale.

Cercavo le parole per spiegare come parte un libro così, nella tua pancia e poi in quello che hai accumulato con la tua esperienza di osservatore della città, le tue indagini, i tuoi contatti, il consumo delle suole delle tue scarpe, i taccuini riempiti di appunti, la voglia di scoprire, raccontare testimoniare. Volevo convincerli che non c’è età per fare questo, che la passione non si ferma mai… ma temevo di essere un po’ patetico in questo tentativo. Parlavo per ultimo, come avviene nelle presentazioni con più relatori, dopo i miei due amici, affettuosi e un po’ complici, e il sindaco pragmatico ed efficiente nel raccontare del ponte e dovevo fare la mia parte, quella dell’autore che si confessa, che spiega quello che mai nel tuo mestiere di giornalista devi fare, perché hai scritto per dare le notizie, per far uscire il giornale.

Mentre nella presentazione di un libro devi aggiungere un quid. Nessuno si poteva aspettare quel libro, sei tu che lo hai voluto scrivere, lo hai scelto e ora che c’è, bello posato sul tavolo e in mano ai tuoi ascoltatori, sugli scaffali delle librerie, devi spiegare perché va letto, va comprato, va propagandato e diffuso. Se no cosa l’hai scritto a fare? redevo che sarei stato più timido nello spiegare la molla del racconto, come se ci fosse una barriera di pudicizia tra me e le ragioni della scrittura. Invece quelle parole che cercavo mi venivano spontaneamente e capivo che chi ascoltava era entrato in sintonia.

Avevo scritto perché questo mi dettava la coscienza del mio stato di testimone, di fronte a una delle notizie più grandi che mi era capitato di vivere nella mia città, appunto da cronista di lungo corso. Avevo scritto, da narratore più freddo dei cronisti in servizio nei giornali, nelle tv, sui social, perché potevo usare una metrica diversa, spaziando nel tempo e nello spazio, come la mia sensibilità così acuita dalla lunga navigazione mi suggeriva, avevo scritto per mettere quel punto fermo che la corrente impetuosa delle notizie non può mai trovare.

Avevo scritto, e dicendo questo avevo fatto anche un po’ di scena, perché da trenta anni prima "sapevo" che quel ponte rischiava e allora avevo ripercorso all’indietro la storia degli allarmi inascoltati, intervistando, indagando con sindaci, politici, imprenditori, urbanisti, professori e ponendo la stessa secca domanda: "Ma voi lo sapevate che il ponte rischiava, ma perché non siete intervenuti, perché avete lasciato che si disfacesse, perché non avete realizzato le opere alternative che avrebbero evitato il degrado?". Dicevo queste cose sotto il gonfalone e capivo che c’era corrispondenza, che la presentazione funzionava, che intorno al libro si era accesa una attenzione forte, come un calore palpabile, ancor di più quando ho parlato di tanti processi che si potevano fare per quel ponte ed uno anche a noi, giornalisti, che non avevamo mai denunciato abbastanza la sua crescente precarietà. Per quella frase mi sono pure preso un applauso.

Non me lo aspettavo. Pensavo che la presentazione fosse un rito, officiato decorosamente e anche con sprazzi di coinvolgimento, ma non immaginavo che l’interesse fosse subito palese. E poi, dopo la presentazione, la pioggia di telefonate di radio, televisioni, di colleghi interessati a capire cosa ci fosse dietro a quel titolo "annunciato", mi ha confortato in quella sensazione di avere "bucato" in qualche modo l’interesse pubblico. Ora non so se il libro avrà successo, come non so se darà un contributo a scoprire le verità complicate di quel crollo, le responsabilità di una grande tragedia con 43 morti e migliaia di danneggiati. Ma sono un po’ come travolto dalle reazioni che quelle pagine stanno suscitando e che non mi aspettavo.

Chi annuncia che ha già letto, chi corre a comprarlo, chi vuole subito confrontarsi e magari anche criticare o fare osservazioni o puntute o laudative. Chi promette recensioni. Sono uscito dal Salone con il Gonfalone e i simboli di Genova come se camminassi su un tappeto di fiori, con la mano del sindaco che mi batteva sulla spalla e all’occhiello della giacca il distintivo di Genova, la croce rossa in campo bianco, quasi avessi dato un contributo importante, quando, mentre ero entrato, con il mio libro sotto braccio, quasi misuravo in me stesso la modestia delle mie capacità.

di FRANCO MANZITTI