Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Massima che calza a pennello all’attuale ministro dello sviluppo economico nonché vicepremier Luigi Di Maio. Credergli sarà bene, ma non credergli è meglio. Almeno nei casi Alitalia ed Ilva, che poi sono le questioni più spinose che come ministro competono a Di Maio, smentito dai fatti e persino dai contratti.

I fatti, il fatto: il governo preme su Atlantia perché entri in Alitalia, porti 3/4 milioni che nessuno porta. Atlantia, cioè Autostrade che Di Maio aveva pochi giorni fa dichiarato “azienda decotta che se entrasse butterebbe giù gli aerei”. Il contratto, anzi i contratti: quelli siglati e firmati con Arcelor Mittal, sia dal governo di prima sia da quello dove Di Maio è ministro, dicono che l’azienda può mollare l’Ilva se non c’è sostanziale immunità penale e civile per eventuali reati da inquinamento ambientale pregresso. L’elemento comune tra le vicende della compagnia di bandiera e di quella che fu la più grande acciaieria d’Europa è l’ambiguità.

Ambiguità prima del Movimento5Stelle, che come nel caso del gasdotto pugliese ha promesso cose in campagna elettorale a cui una volta al governo non ha voluto o potuto dare seguito, e ambiguità che si è impersonata nell’uomo che il Movimento rappresenta: Luigi Di Maio, capo politico grillino, vicepremier del governo Conte e titolare di un dicastero decisamente importante. Nel caso, tormentatissimo e antico, di Alitalia a smentire Di Maio sono i fatti.

La ‘decotta’ Atlantia, come la definì poco tempo fa Di Maio, sembra ora indispensabile per l’ennesimo tentativo di salvataggio. Mancano all’appello più o meno 300 milioni, e la holding in questione sembra essere il soggetto perfetto per colmare questo buco. Tanto che tutta la metà verde del governo spinge in questo senso, mentre quella gialla sembra rassegnata alla realtà. Per loro amara. Amara perché Atlantia è interessata anche in quanto proprietaria degli Aeroporti di Roma, ma soprattutto perché in mano ai Benetton. Quegli odiati Benetton divenuti nemico numero uno dei 5Stelle dopo il crollo del ponte Morandi.

Il ministro dei trasporti Danilo Toninelli li vorrebbe fuori dalle concessioni autostradali (operazione che rischia di costare 20 miliardi di penali) e Di Maio, titolare dello sviluppo economico, non ha perso occasione per attaccarli. Qualche volta dimenticando anche le accortezze istituzionali che un ministro dovrebbe osservare. Odiati a parole ma necessari nei fatti. Mezzo stivale più a Sud, a Taranto, l’altro nodo e l’altra smentita per Di Maio. Oggetto, nemmeno a dirlo, l’Ilva. Non esistono scudi dall’azione penale, ha tuonato proprio Di Maio quando si stava decidendo se togliere proprio quello scudo ad ArcelorMittal.

Scudo che evidentemente esisteva se andava tolto e che, anziché essere eliminato, proprio Di Maio ha confermato e rafforzato. Salvo poi dire che non doveva esistere, che era colpa del Pd e che se ArcelorMittal se ne fosse andata avrebbe pagato penali. Parole smentite in questo caso non dai fatti ma dai contratti. E in particolare da quello siglato il 14 settembre 2018, quando a Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte e al ministero dello Sviluppo economico c’era Luigi Di Maio. Contratto recuperato dal Sole24Ore.

Un accordo di modifica che integrò il contratto originario siglato dal governo Gentiloni e che però, più e meglio di quello originario, specifica che se venisse cancellata la non punibilità ambientale ArcelorMittal avrebbe la facoltà di mollare tutto senza alcuna penale, e che qualora cambiasse il piano ambientale, con la conseguente ricalibratura dell’attività economica e dunque con la revisione del punto di pareggio operativo nell’acciaieria, di nuovo ArcelorMittal potrebbe restituire le chiavi senza danno per lei.

Punti così formulati nella loro formula burocratica: “Nel caso in cui con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non definitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto” e, punto 2, “L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale”. Fatti e contratti.

di RICCARDO GALLI