Chissà se a Matteo Salvini, il Truce vice premier, ministro dell’Interno, vengono dei pruriti particolari quando sente nominare Genova e la Liguria o quando ci deve venire per diporto nella sua amata Recco della focaccia al formaggio o quando qua lo portano i doveri istituzionali come ieri, 16 luglio, appuntamento per riaffidare i beni sequestrati alla malavita organizzata.

Per lui Genova e la Liguria sono oggi sopratutto la terra da cui partono i fulmini delle disavventure giudiziarie cicliche che sembrano martellare la Lega Nord incessantemente da anni e mettere in grave difficoltà lui, segretario in potente ascesa di popolarità e consensi. Tutto bene per il Truce, ma in Liguria non è proprio così. Non era bastato l’ex tesoriere, ligure, successore di Maurizio Baiocchi, spicciafaccende di Bossi, e già sottosegretario alla Semplificazione nel IV Governo Berlusconi, pure vicepresidente di Fincantieri, Francesco Belsito, l’uomo dei diamanti investiti in Tanziania con i soldi "rubati " dalla Lega ai rimborsi elettorali nei tempi del Senatur Bossi e dei 49 milioni da restituire a rate per ottant’anni, dopo una sentenza del Tribunale di Genova.

Non era bastato Armando Siri, altro genovese, sottosegretario alle Infrastrutture, lo spin doctor di Salvini nel progetto flat tax, dimessosi tre mesi fa dal Governo Conte, dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta siciliana sulle energie rinnovabili con connessioni mafiose, lui già passato attraverso una bancarotta fraudolenta, che non gli aveva impedito l’accesso al Parlamento e al Governo. Non sono bastate le condanne a Edoardo Rixi, già vice segretario nazionale, vice ministro alle Infrastrutture, genovese e uomo forte della Lega di lotta prima e di governo totale oggi, a Genova e in Liguria, l’uomo chiave per la ricostruzione del Ponte Morandi, pizzicato nel processo per le spese pazze in Regione Liguria, estese recentemente anche al suo vecchio ruolo in Comune.

Ora è arrivata dalla Liguria, e per la precisione dal Ponente ligure e più precisamente da Alassio-Laigueglia, Baia del sole, in provincia di Savona, la stangata di Gianluca Savoini, cinquantaseienne presidente di "Lombardia Russia", associazione culturale con uffici milanesi contigui a quelli di via Bellerio della Lega, fedelissimo di Salvini, sempre al suo fianco, prima come portavoce, ora come addetto alla "campagna di Russia", beccato a trattare affari molto vantaggiosi per la Lega in operazioni commerciali di scambio tra forniture petrolifere e finanziamenti al partito, stornati dagli sconti per il maxiapprovigionamento. C’è, quindi, un minimo comune denominatore ligure tra le grane giudiziarie che piovono sulla testa della Lega e accusano il vice premier a raffica, suscitandone una reazione per molto versi sconcertante, ma magari pilotata dalla sua redditizia tattica di ricerca del consenso. Salvini ovviamente nulla sapeva delle operazioni dei diamanti di Belsito, dei 49 milioni spariti verso i lidi leghisti dai bilanci dello Stato italiano. E questo ci può stare nel macchinoso passaggio di consegne tra il regno di Bossi, il transito di Roberto Maroni e la cavalcata di Salvini, l’uomo del boom.

Salvini ignorava completamente il pedegree di Siri, giunto alla sua corte dopo le disavventure delle sue società di comunicazione e non era infornato sui suoi movimenti e sui suoi contatti nella materie delle energie rinnovabili di cui il genovese era diventato competente dopo il suo ingresso nel governo. Un po’ di più sapeva, forse, del rischio che uno dei suoi fedelissimi, Edordo Rixi, correva con quel maxi processo italiano, frazione genovese e ligure, dove si giudicavano le spese dei consiglieri regionali, giudicando se erano conformi al loro ruolo istituzionle o "variazioni" molto fantasiose, dai perizoma delle signore e signorine consigliere, alle casse di vino pregiato, ai viaggi e ai week end privati finiti con gli scontrini nei piè di lista del rimborso regionale. Così facevano tutti: dalle  nabucodonosoresche spese di "Batman" nel Lazio, alle mutande verdi del presidente piemontese Cota, fino alle spesucce dei consiglieri liguri, tutti accomunati, mica solo i leghisti, nel vizietto, da illustri prof universitari, a grandi deputati e imprenditori forzisti, fino appunto a Rixi, leghista number one in Liguria. Che Salvini immaginasse questo lo si è capito dalle folgoranti dimissioni del vice ministro, che ora aspetta le sentenze successive per cancellare soprattutto quella pesantissima condanna alla interdizione perpetua dai pubblici uffici che compare nel verdetto oltre ai tre anni e che, se confermata, lo cancellerebbe dalla vita politica.

Che il ruolo di Gian Luca Savoini fosse accidentale, periferico e a sua insaputa, questo è un po’ più ostico da credere, perché il legame con questo cinquantaseienne giornalista dal lungo corso leghista alle spalle era forte e indiscutibile. Chi conosce bene in Liguria Savoini sa della sua adesione di lunga data al Carroccio della Lega, maturato nella primissima gioventù dopo le esaltazioni adolescenziali per il nazifascismo e la sua vocazione giornalistica, coltivata quasi dall’infanzia in una posizione inizialmente decentrata come quella della Riviera ligure, dove è difficile fare un salto professionale. Protetto da mostri sacri come Gipo Farassino, famoso chansonnier piemontese di fede leghista e di residenza estiva proprio a Laigueglia, il Savoini aveva fatto un convinto ingresso nella Lega di Bossi, quella dura e pura dei primi tempi e a Milano si era conquistato uno a uno i gradini di una carriera giornalistica, dalle pagine periferiche del "Giornale", alla "Padania", agli influenti e solidi uffici stampa della Regione, dove era diventato non solo dirigente ma anche influente suggeritore dei potenti.

Prima nella cerchia dell’Umberto, nonostante la sua giovane età, poi speaker di Roberto Maroni, diventato presidente della Regione. In quella condizione era stato proprio lui, ovviamente non da solo, a individuare tra i giovani ambiziosi e in possibile carriera all’ombra del Senatur, Matteo Salvini, di una decina di anni più giovane, eletto consigliere comunale di Milano, del quale poi era diventato portavoce durante la sua rapida scalata al potere leghista. Quindi il rapporto tra i due, il giornalista di fede leghista comprovata e un po’ sfaccettata dalle sue iniziali vocazioni dell’ultradestra e l’aspirante leader, è consolidato nel tempo e nelle rispettive carriere. E’ in quel brodo di cultura di destra dura e senza indugi che nasce anche l’asse con la Russia di Putin, una passione politica probabilmente esplosa ben prima nel portavoce, che coltivava le sue tendenze anti-europee di Bruxelles e pompava la vicinanza ai duri e puri del Continente, come già il vecchio Le Pen in Francia . Probabilmente Salvini, grande improvvisatore di nuove politiche in Italia e in Europa, ha seguito e così si spiegano le sue prime puntate nella grande madre Russia, a fianco di Savoini, con missioni a partire dal 2014, oggi per lui pesantemente certificate dalla pioggia di foto che sbucano dagli archivi, smentendo l’occasionalità degli incontri con i russi a casa loro, ma anche nelle visita italiane di Putin.

Non è un caso che Savoini sposi in seconde nozze una bella ragazza russa e intessa frequenti rapporti, sfruttando l'Associazione culturale Lombardia-Russia , con tanti personaggi del mondo moscovita, intellettuali di quella risma estremista e uomini d’affari dal business facile. Una bella rete messa sù, malgrado Savoini non sappia parlare né il russo né l’inglese. Certo è rapida e sopratutto inattesa per il suo versante internazionale la carriera di quel ragazzo del Ponente Ligure che i colleghi italiani e savonesi oggi descrivono un po’ stupiti come un "anafettivo", misterioso nelle sue convinzioni politiche estreme, nel suo retroterra culturale, fino a un certo punto coltivato prudentemente nell’ombra, per non compromettere gli equilibri della lunga parabola leghista e dei suoi leader. Ed è anche facile pensare che il suo background russo sia servito eccome alle ispirazioni di Salvini, salito prepotentemente alla ribalta ed alla ricerca di grandi provocazioni, come quella della battaglia contro le sanzioni alla Russia. Salvini e Savoini sono insieme sulla piazza Rossa, fotografati uno fianco all’altro a mostrare i cartelli anti sanzioni, scritti in italiano e non in crillico, un potente messaggio alla politica italiana.

E dopo tutto questo Savoini era a vertici e riunioni e incontri commerciali a insaputa dell’altro? E dopo tutto ora il vice premier può cavarsela "scaricando" il suo ex talent scout, uno degli spin doctor della sua politica filo russa ante litteram, non rischiando nulla e azzerando di fatto il lungo lavorio dell’associazione Lombardia-Russia? Con Belsito e Siri la tattica da caterpillar del ministro dell’Interno, che salta oltre le inchieste e i processi, ha funzionato. Un po’ meno con Rixi, il cui processo è una ferita che sanguina ancora. Con Gian Luca Savoini la partita è diversa e non solo perché di mezzo c’è un’inchiesta penale con un’imputazione di truffa internazionale, reato che, come è noto, si consuma anche se è semplicemente tentato.

L'"anafettivo" Savoini, figlio di una solida famiglia, che ha in Liguria una ultra-decennale attività imprenditoriale nel settore della balneazione in concessione, conosce molti segreti della trama russa con la Lega e non può essere marginalizzato facilmente, anche se le sue "sedute" nella hall del Metropole di Mosca appaiono anche un po’ nebulose. In fondo fino a ieri lui e il "capo", Matteo Salvini, non erano in sintonia solo nel credo calcistico.

Salvini, come è noto, è un accanito tifoso milanista. Savoini è uno sfegatato supporter della Juve, spesso ospite di quel teatrino che va in onda quasi tute le sere in Tv su canale 14 per la Liguria, la "mitica" 7Golden Tv, bazzicata anche da personaggi come l’ex direttore generale della Juve Moggi, dai due "litiganti" Elio Corno e Tiziano Crudeli, famosi per le gag tra milanisti e interisti e da belle ragazze con generose scollature.

L’"anafettivo" Savoini lì si scaldava eccome per la sua Juventus. Ma sulla piazza Rossa era molto più gelido e strategico. E Salvini lo sapeva.