Mai si era vista una manovra così spericolata, irregolare, ad alto rischio, col paese che precipita al voto in piena sessione di bilancio: è la crisi ai tempi del populismo, aperta l’8 agosto sulla spinta propulsiva del Papeete, con mezza Italia in vacanza. E con l’onnipotenza di chi pensa che, a questo punto, crisi, scioglimento, convocazione delle urne si risolvano in 48 ore, con le "inutili" istituzioni chiamate ad assecondare il ruggito sovranista in poche ore e già fa trapelare la data del 13 ottobre, prerogativa che non è nelle sue disponibilità, ma in quelle del Quirinale.

E con l’inaudita pretesa di gestire il voto dal Viminale, inedito assoluto nella storia repubblicana, con Salvini candidato premier e garante delle elezioni, arbitro e giocatore. Mai al Viminale, che ha il compito di esercitare un ruolo di garanzia dalla presentazione dei simboli al conteggio dei voti, ha governato la stanza dei bottoni, in periodo elettorale, un leader politico candidato a governare il paese, ma sempre una personalità in grado assicurare una neutralità per tutti.

Tutti ricordano quella notte del 2006, in cui il centrosinistra vinse per 20mila voti: a un certo punto quando non arrivavano i risultati dai seggi di Caserta, si narra che Berlusconi chiamò l’allora ministro Beppe Pisanu a palazzo Grazioli. E, in un clima di tensioni e sospetti, si precipitò al Viminale dal "Botteghino" (l’allora sede dei Ds) Marco Minniti con il compito di "vigilare". Fatto sta che quei 20mila voti furono fatali per Pisanu, la cui correttezza non è stata messa in discussione da nessuno, ma che, guarda caso, vide schiantata la sua carriera nel mondo berlusconiano in una notte.

Ecco, pare un dettaglio, ma guardando alle prossime settimane è una questione ad altissima sensibilità che sarà oggetto delle riflessioni del Quirinale e di tutti gli attori in campo, in questa inedita crisi, che si aprirà in Parlamento, quando sarà convocato. E che ne condizionerà anche modi e tempi. Il punto è questo: se il governo Conte cadrà in Aula, su un voto di sfiducia, sarà questo governo dimissionario a portare il paese al voto. Se invece, registrato il dibattito in Parlamento, Conte rassegnerà le dimissioni nelle mani del capo dello Stato, a quel punto si aprirà la riflessione su un eventuale "governo elettorale" che garantisca le operazioni di voto.

Perché poi, parliamoci chiaro, al netto della narrazione dell’uomo forte, e dell’arbitrio di chi "se ne frega", la democrazia ha la sua complessità che mal si concilia col delirio di onnipotenza sotto forma di turpiloquio sui parlamentari che "devono alzare il culo e venire a Roma già lunedì" per formalizzare la crisi. Crisi aperta a Camere chiuse, quando sarebbe stato molto semplice e lineare anticiparla di qualche settimana. C’è tutto il senso di questa ebbrezza in alta quota nelle modalità di un vicepremier che piomba a palazzo Chigi con il suo avviso di sfratto al premier, a cui chiede di togliere il disturbo con lo spirito del padrone che caccia di casa un intruso.

E che poi, nel comizio da bettola a Pescara, pretende di trasformare la sua volontà e la sua fame di Potere in legge per tutti, senza "che rompano i coglioni" perché ha fretta di passare all’incasso, per scatenare la sua ordalia finale contro l’Europa. Invece, la manovra spericolata, proprio perché fatta in spregio al buonsenso rischia di essere un azzardo costoso sulla pelle del paese, che fa già piombare l’incertezza sul terreno della prossima finanziaria. Non è affatto banale il discorso dei tempi. Eccoli. Le Camere sono chiuse, e toccherà a Conte chiedere ai presidenti di Camera e Senato, di riconvocarle per il voto di fiducia e, in questo clima di tensione, è ipotizzabile che non avrà tutta questa fretta, anzi il calendario diventerà il terreno del contendere, perché è chiaro che, a questo punto, i Cinque stelle utilizzeranno ogni terreno per disturbare Salvini, scaricandogli la responsabilità e le implicazioni di questa scelta.

Bene, facciamo due conti: il 20 in Aula, poi le consultazioni, poi lo scioglimento, e siamo già al 25 agosto, se non si pone di il tema di un governo elettorale, il che sarebbe assai bizzarro. A quel punto, dallo scioglimento al voto, il tempo minimo sono 65 giorni e siamo a fine ottobre. Poi ci vogliono 20 giorni per insediare le Camere, eleggere i presidenti, fare le consultazioni per il nuovo governo, e siamo, bene che vada a inizio dicembre. In queste poche date c’è già la follia di un governo che rischia di non varare la finanziaria e il paese che precipita nell’esercizio provvisorio, il che significa non disinnescare le clausole di salvaguardia e far scattare aumento dell’Iva.

Nel discorso ducesco di Pescara, al grido di "regole, ordine, disciplina" dove mancava solo il "credere, obbedire, combattere", nell’orgia machista degli strali contro la perfida Europa, c’è questa bancarotta del paese che ognuno cercherà di scaricare sugli altri: Salvini contro quelli che non lo hanno mandato al voto domani mattina, i Cinque stelle contro Salvini che è voluto andare al voto. E il capo dello Stato nei panni di chi ha il compito di tutelare l’interesse nazionale, in una situazione complicatissima. Perché la macchina del voto è già avviata e la campagna elettorale, nell’era del populismo, è già iniziata senza che siano stati consumati i necessari passaggi istituzionali, con tutti i soggetti in campo che invocano le elezioni. Non ci sono, al momento, tanti margini per soluzioni alternative, dopo il fallimento dell’esperienza gialloverde.

Anche la mossa di Di Maio di votare prima la riduzione dei parlamentari, che allungherebbe la legislatura di qualche mese, più che un tentativo politico di formare una nuova maggioranza, appare come la costruzione narrativa della sua campagna elettorale. La crisi è aperta. Ma il come arrivare al voto è già il primo terreno del conflitto. Appare chiaro che le elezioni non le indice Salvini. E che non può gestirle dal Viminale.

ALESSANDRO DE ANGELIS