La sera ci si accalcava nelle balere dove andava in scena quella musica ancestrale che si chiama tango, un pensiero triste che si balla, secondo il maestro Enrique Santos Discépolo. Allo spaesamento e alla mancanza di radici quei ritrovi poco illuminati, fumosi e dall’aria malsana, diventano piccoli angoli di certezze con un bicchiere d’alcool da ingurgitare, una bibita da sorseggiare, un matè da bere, un amico con cui scambiare due chiacchiere, una donna da puntare e una fotografia appesa alla pareti che rammenta la stagione dei piroscafi.

L’intimità del salone da ballo trasmette sicurezze al contrario della maestosità di Buenos Aires che trasmette l’eterna inquietudine dell’emigrante. Nel tango si piangono gli amori finiti, i famigliari perduti, i luoghi abbandonati, la gioventù svilita. Si guardano i propri vecchi che hanno attraversato l’oceano e di colpo ci si sente più anziani di loro avendo portato dall’altra parte dell’Atlantico il peso memoriale di intere generazioni. Il senso dell’addio non si placa, uno stato d’anima ansioso insediatosi subdolamente nel fondo dell’anima di chi ha varcato l’oceano senza un apparente motivo oltre la pura sopravvivenza.

Gli incalliti amanti della milonga, tra un singhiozzo e una lacrima, non fanno mancare mai al cantante una tirata di fumo o un bicchiere di vino per mantenerlo vivo. Con il tango i corpi si toccano, si sfiorano, i sudori si mischiano, i profumi si trasferiscono dal collo della donna alle narici dell’uomo che guida la coppia, dirige la circolazione, scaccia le convenzioni del passo e inventa come solo si inventa nell’atto dell’amore. Lui cinge la vita di lei; lei appoggia la mano sinistra sulla spalla di lui; poi si stringono la mano forte, come se dovessero attraversare di nuovo l’oceano.

Tra un bicchiere e l’altro nel peringundines qualcuno rammentava un’immagine di Boccadasse, una barca, una nave, la Lanterna di Genova, la focaccia di Recco e le acciughe di Monterosso. Il mondo sembra sfilarsi e diventare una trama di rotte senza ritorno. Allora tutti brindano alla squadra dei xeneises sentendosi d’improvviso in nessun luogo, in quel limbo di sensazioni che ri nuncia al rimpianto e fa guardare avanti. Orgogliosi, introversi e brontoloni, i boquenses si sono sempre sentiti diversi, chiusi nelle loro particolarità tutta ligure.

Dopo vari tentativi secessionistici, nel 1882 decisero di autoproclamarsi República Independiente de La Boca. Su 35 mila abitanti, gli spagnoli erano solamente duemila. Il resto era gente che non aveva mai visto una pianura, era nata e cresciuta tra le onde, annusava la direzione del vento, conosceva il corso delle nuvole, cavalcava l’Atlantica alle ricerca di una rivoluzione da combattere. Dal 1860, infatti, la Boca divenne la meta dell’emigrazione politica peninsulare scontenta del risultato ottenuto dal Risorgimento italiano. Tra loro garibaldini e carbonari, innervati da spirito internazionalista, esponenti di società segrete e logge, repubblicani e rivoluzionari esiliati, nizzardi senza più patria. La loro voce era il giornale El Ancla, definito primo periodico della Boca e di Barracas, apparso dal 1875. I ragazzi erano colmi di nostalgia per l’Italia perduta.

Crescevano coltivando tre parole: patria, libertà e indipendenza. E anche se vivevano con un piede sulla terraferma ed un piede su una nave, uno in Sud America ed uno ancora fermo in Liguria, molti di loro intuivano che non avrebbero più fatto ritorno in quell’arco di montagne affacciato sul mar Mediterraneo. Così sul Riachuelo issarono la nuova bandiera albiceleste con lo scudo dei Savoia al centro e un fregio di stampo repubblicano, si misero a battere moneta, dichiararono il ligure lingua ufficiale e firmarono un atto che inviarono al re d’Italia Umberto I° con la prima nave che salpò dal molo chiedendo il riconoscimento internazionale. Quando al generale Julio Argentino Roca, presidente della Repubblica, che aveva sterminato gli indios della Patagonia, gli dissero che i xeneises della Boca avevano avviato una azione secessionista a pochi passi dalla sua residenza, pensò che fosse una pittoresca ribellione dovuta all’alto consumo di vino e alcolici.

Invece in poche ore, grattandosi il folto pinzetto che puzzava di sangue mapuche, in segno di perplessità, si rese conto che quelli della Boca facevano sul serio. "Vogliono fare come a San Marino" proclamò un segretario di Roca di origine romagnola. I promotori si chiamavano Vernengo, Cafferata, Blanco, Ungaro, Invierno, Castañera e Perazzo. Fu lo stesso Roca a recarsi in carrozza nella Boccadasse bairese per contrattare la resa o meglio l’accordo. Fu tale in convincimento che il giorno seguente i boquenses genovesi battezzarono col nome di Presidente una delle calle principali della zona. Juan Antonio Farenga hijo (figlio) mi mostra una foto del 25 maggio 1940.

All’inaugurazione della Bombonera, al centro del campo, gli eroi della fondazione del club tengono dispiegata la bandiera del Boca: Josè Farenga, Juan Antonio Farenga, Arturo Penny, Ludovico Dollens, Juan Priano, Marcelino Vergara e Pedro Moltedo. Camminiamo lasciandoci alla spalle gli spalti dello stadio. Juan Antonio si tiene ad un bastone, gambe arcuate, occhiali e baffi e si ferma spesso. Per lui ogni angolo di questo quartiere contiene una storia, una vicenda, un aneddoto, un ritrovo: la salumeria dei Delfino, il vino dei Cacace, la pizzeria di Juan Priano, la focaccia e la fainà di Tuñin de la Boca e quella di Pedrin che la vendeva davanti allo stadio con il suo banchetto. Per sostenere le sue tesi – estratta dai ricordi del padre, dello zio, della famiglia, - ha anche scritto un libro "Nosostros Boca" e quando è venuto in visita al paese natale del nonno, Muro Lucano, ne ha pubblicato una versione anche in italiano, "Noi Boca" edito dalla Commissione Regione dei Lucani all’estero presieduta da Pietro Simonetti. Sulla strada corrono ancora i binari di un tranvai che non arriva da decenni.L’erba incolta copre la vecchia staccionata rimasta in piedi.

Juan Antonio Farenga junior mi mostra la placca metallica che ricorda la fondazione del Boca Junior. E’ stata collocata in Piazza Solis nel luogo dove era collocata la panchina degli incontri dei fondatori. Sino a qualche decennio fa si poteva ancora vedere, una panchina in legno, stile italiano, in ferro battuto ricoperto da strisce di legno con alle spalle un albero dal fusto corposo e abbondante. Ora non c’è più, ma in molti la ricordano, la descrivano. Qui tutto odora di Boca Juniors. La versione di Juan Antonio Farenga junior è semplice: "Nel momento cruciale per i destini del club, quando il ragazzi non avevano dove riunirsi, mio padre ha aperto il portico di casa sua, in Via Pinzón 267, per permettere che si dichiarasse la fondazione ufficiale del Boca e si tenesse la prima riunione della commissione direttiva della neonata società".

FINE SECONDA PARTE

di MARCO FERRARI