Non penso che tutto si riduca ad una mera questione di attaccamento alla poltrona ed ai privilegi che questa comporta. Certo, per molti personaggi in cerca d’autore, proiettati sul palcoscenico della politica, la posizione raggiunta sembra quasi irrinunciabile, al punto da giustificare l’accettazione di tutto ciò che la consolidi o quantomeno la conservi. La poltrona - così sprezzantemente definito il seggio parlamentare - non spiega tutto, però.

Se gratti bene, ti accorgi che, sotto le umane (comprensibili) debolezze, non c’è nulla: non un’idea, non un progetto, non uno scopo. Niente, zero assoluto. La facilità con la quale si aderisce a schieramenti opposti, duramente criticati fino a poche ore prima, rivela una inconsistenza ideologica, culturale e financo personale, che dovrebbe allarmarci più degli inesistenti rischi di autoritarismo, rendendo evidente che il rischio per le libertà sta nel vuoto più che nei loro nemici.

La democrazia vacilla anche per queste ragioni. Nel momento più buio della storia recente, in quella notte della Repubblica nella quale stragi e terrorismo sembravano mettere a dura prova la nostra giovane democrazia, nessuno avrebbe mai messo in discussione il Parlamento, che rappresentava la Nazione, quella vera. Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, svolge un’analisi interessante, ma incompleta: tralascia il ruolo dei partiti, della loro funzione pedagogica, del ruolo che dovrebbero avere in un sistema equilibrato. Gli uomini politici - veri - non nascono sulle piante, ma sono il prodotto di una lunga selezione interna.

L’alternativa a questo impianto - quello disegnato dalla Costituzione vigente, che assegna ai partiti un ruolo rilevantissimo - è che i governi nascano da trattative di cui non si conoscono matrice e scopo, affidati a persone che, non avendo collocazione ideale, non si riconoscono in altri che non in se stessi e in mandanti dei quali, il più delle volte, non sanno nome, storia e intenzioni. Ammesso e non concesso che un nome lo abbiano davvero.

MAURO ANETRINI