Animali, ambiente e, specie se ci si va nella stagione delle piogge, acqua. Tanta acqua. La Costa Rica in estate è talmente umida che se ti bagni – e ti bagni è matematico – non ti asciughi più. Né tu, né i tuoi vestiti, che stagnano in valigia fino al ritorno in Italia. Così tra parchi, vulcani, fiumi e spiagge, cammini alla ricerca di bradipi, tucani, scimmie o rettili coi vestiti appiccicati addosso e le scarpe piene di fango. Vaghi intriso di repellente anti zanzare, che è comunque incapace di fermare questi insetti famelici: come dicono i locali, infatti, i mosquitos amano le pelli chiare, specie se straniere. A parte questo dettaglio, la Costa Rica è un posto fantastico per chi ama osservare gli animali, le piante, la natura.

Più di un quarto del suo territorio è parco o zona protetta, le piante che da noi crescono faticosamente in un vaso qui sono enormi, le foreste hanno mille sfumature di verde e i fiori hanno forme strane. Per non parlare degli animali, che sono moltissimi: la Costa Rica per quanto piccola (è circa un sesto dell’Italia) conta quasi il 10% delle specie di uccelli al mondo, e poi due specie di bradipi, quattro di tartarughe e altrettante di scimmie, sette famiglie di procioni, il tapiro, il giaguaro, il puma e l’ocelot e più di cento specie di pipistrelli. Sono tanti anche i rettili, tra cui il Basilisco, la "lucertola Gesù Cristo" che corre sull’acqua, o le iguane. E ancora pesci, anfibi di ogni foggia e ragni. I costaricani, tanto per rassicurare i turisti, amano sottolineare che questi ultimi sono tutti velenosi.

Di certo, comunque, serve una guida locale esperta per riuscire a vedere la fauna, soprattutto nelle camminate alla ricerca degli animali notturni. I nostri occhi non sono allenati e si accorgerebbero di un procione giusto se ci attraversasse la strada. In due settimane ne abbiamo visti in abbondanza. Non gli schivi felini, ma in compenso durante una gita in barca abbiamo visto le balene saltare a una ventina di metri da noi. E al Tortuguero abbiamo osservato le tartarughe, di notte, scavare buche sulla spiaggia, deporre le uova, ricoprile per camuffarle e lentamente tornare in mare. Una bella emozione, intaccata un po’ dal fatto che fossimo in tanti (benché contingentati) su quella spiaggia e che la guida, seppur con cautela, alzasse le zampe della futura madre per permetterci di vedere le uova che si depositavano nella buca.

Il Tortuguero, comunque, è stata solo la prima tappa del viaggio in questo piccolo, incantevole paese dove gli abitanti usano l’espressione "pura vida" per salutarsi e rispondere ai grazie. Una nazione che dal 1949 non ha più l’esercito, che ci tiene a ricordare come il suo sia "il popolo più felice del mondo", primo per quasi dieci anni nella classifica della "Happiness in Nations", e dove è forte la volontà di proteggere l’ambiente. Qui, infatti, la quasi totalità dell’energia elettrica è prodotta con fonti rinnovabili, non si fuma nei locali, nemmeno se sono all’aperto, non si fuma nei parchi (i ranger perquisiscono gli zaini all’entrata), e ovunque ci sono cartelli che chiedono di non lasciare in giro la "basura", la spazzatura. Dappertutto, o quasi, ci sono i bidoni per la raccolta differenziata, ma quasi mai quelli per i rifiuti indifferenziati. Nei bagni abbondano gli avvisi a non sprecare l’acqua e a usare un asciugamano di carta alla volta.

Da Brasilito si passa a Quepos e al parco Manuel Antonio. All’appuntamento con la guida arriviamo tardi e veniamo puniti, non solo perché la guida fa un giro veloce e senza troppa passione, ma anche perché ci si rovescia addosso un temporale tropicale che trasforma le strade in torrenti. A questo proposito, sconsiglio di credere che la pioggia ai tropici duri poco: non smette per almeno due ore e ci prendiamo delle secchiate d’acqua che lasceranno i nostri abiti bagnati per sempre. Il giorno dopo si parte in barca da Sierpe per Baia Drake, percorrendo prima il fiume poi l’estuario per entrare nella baia. Dopo un’uscita di snorkeling, l’isola di Cano, le balene, i delfini e un pranzo su una spiaggia si arriva a Drake. Non c’è nulla se non un paio di sodas (le trattorie costaricane si chiamano così) una delle quali è anche un supermercato e un caffè aperto ininterrottamente dalle 6 di mattina alle 10 di sera.

In uno di questi locali, dove lavora tutta una famiglia, fanno dei cocktail buonissimi: il corpulento capofamiglia taglia e frulla personalmente la frutta prima di aggiungerci il rum o la cachaca. La mattina successiva, sempre all’alba, ancora in barca per arrivare al Corcovado, uno dei parchi più famosi della Costa Rica e un vero tempio dei "nazi ambientalisti-salutisti". Alla stazione dei ranger de La Sirena, dove dormiamo, ci si arriva per mare con un viaggio di un’ora e mezzo (sotto la solita pioggia battente) oppure a piedi percorrendo 20 chilometri di sentieri in mezzo alla foresta. Al Corcovado non solo non si può fumare ("anche la spiaggia è parco, quindi nemmeno qui", ci avvisa un accigliato ranger), ma non si può bere alcol, non si può entrare a La Sirena con le scarpe, si deve riportare indietro la spazzatura che si produce, si cena alle 18 e si spengono le luci alle 20.

Si dorme tutti insieme in uno stanzone da una quarantina di letti a castello muniti di zanzariere. La stanza ha un tetto, ma reti al posto dei muri, così da sentire distintamente i rumori della foresta, come gli inquietanti richiami delle scimmie urlatrici, e il russare dei compagni. Tutto ciò per alzarsi alle 4.30 e camminare in sentieri con dieci centimetri di fango, guadare fiumi e vedere gli ultimi animali prima di ripartire verso San Josè, indossando l’ultima t-shirt pulita, ma umida. Pura vida Costa Rica, ti abbiamo amato anche con la pioggia. Dalla capitale San Josè ci siamo spostiamo appunto verso la costa del mar dei Caraibi, con un intermezzo a La Paz waterfall gardens, che oltre alla cascata, ospita diversi animali. Purtroppo sono in cattività, ma il centro è punteggiato da cartelli che sottolineano come i gardens siano un centro di recupero per animali che in libertà non sopravvivrebbero.

Dal Tortuguero, dopo aver pagaiato alle 6 di mattina ("perché gli animali si avvistano di notte o all’alba") nel canale tra mangrovie e caimani si torna a Moin con una lancia a motore che nel virare si piega come la moto di Valentino Rossi. Il pilota, a un certo punto, si ferma in mezzo al fiume per salutare un "collega" e invitarlo a far baldoria "miercoles por la tarde". Poi di nuovo in bus per macinare chilometri verso il Sud e il parco nazionale di Cahuita, un luogo di conservazione tra la foresta e una spiaggia dove gli alberi arrivano quasi fino all’acqua e dove la guida ci fa vedere come si mangiano le termiti, ma pochi di noi lo imitano. A cena il nostro autista Henri, che non beve e non fuma e il secondo giorno è già il nostro migliore amico, insiste per farci assaggiare il "mortal" Chiliguaro, un miscuglio di alcol e chili fatto in casa che qui si beve alternandolo alla birra. "Dopo qualche giro non ti alzi", assicura Henri e non si fatica a crederci.

Il giorno dopo si parte per Turrialba e si fanno tre bellissime ore di rafting sul fiume Pacuare. È piovuto e l’acqua corre veloce, in un paio di punti le rapide sono di livello quattro su cinque, alcuni dei gommoni si ribaltano più volte. Non il nostro che ha un "capitano" argentino "prudente". Qui capisco anche perché questo sport sia utile al team building: i vogatori devono rispondere all’unisono agli ordini del capo, altrimenti si va nel caos ed è facile anche rimanere bloccati in un mulinello. Quando la corrente si fa più calma, ti guardi attorno ed è un capolavoro di alberi e vegetazione. Intanto, per cambiare, ti inzuppi d’acqua. La tappa successiva è La Fortuna, dalla terrazza della pensione dove dormiamo si vede il vulcano Arenal, perfettamente conico, uno scenario perfetto per la colazione prima di andare a fare una passeggiata sulla colata lavica del 1968.

La sera si cammina ancora, al buio, a Santa Maria, con le guide che aiutano a individuare gli animali notturni, tra i quali ci sono pure i serpenti. Sempre a la Fortuna, il giorno prima facciamo un’escursione al parco del Rio Celeste, che è veramente celeste (il colore è dato dalle particelle di silicati) come è celeste la sua cascata. La camminata non è lunga, ma fa un caldo atroce. Fino a qualche anno fa ci si poteva tuffare, ora non più, quindi per fare il bagno e trovare un po’ di refrigerio bisogna uscire dal parco e guadagnare una sponda piuttosto affollata di turisti e ticos (i costaricani si chiamano così per abbreviare la parola costaricenses). Ancora altri chilometri per arrivare a Monteverde e alle foreste "nebulose", dove l’umido raggiunge l’apice e le cime degli alberi sembrano avvinghiarsi ai banchi di nebbia.

Qua ci sono le zip line, che in Costa Rica sono diffusissime, e (sotto la pioggia che non molla) voliamo appesi su 13 linee, fino all’ultima, lunga un chilometro che, pagando un sovrapprezzo, si può fare alla superman. Cioè appesi bocconi, insalsicciati in un’attrezzatura che lascia libere le braccia, per scivolare sul cavo di acciaio a parecchi metri d’altezza sopra la foresta. Attività vietata ai cardiopatici, ma che non spaventa, anzi: la sensazione di libertà è impagabile. La costa del Pacifico, le balene, in barca verso Baia Drake e il parco Corcovado. Il giorno dopo si va a Brasilito, siamo sull’Oceano Pacifico e ci si rilassa tra la spiaggia del Conchal, il surf e le uscite in catamarano. Diversamente dal lato caraibico, il sole tramonta sul mare e quando fa buio ci si sposta a Tamarindo, dove la vita notturna è più vivace. In Costa Rica, almeno in questo periodo, i locali chiudono presto e infatti troviamo un solo bar aperto, infestato da gringos che bevono come lavandini (e che i ticos non amano affatto) con la musica a palla e i video di ragazze che dimenano il sedere.

Angela Sannai