Ogni approdo a Capri è un viaggio iniziatico verso una parte inesplorata dell’anima. Avvicinandosi lentamente alle sue rocce dalle multiformi sfumature si ha la sensazione di attraversare un confine, una linea d’ombra. Capri è un’isola atopica e utopica, eterno campo di battaglia di vitali o oscure pulsioni. Improvvisamente ci si trova proiettati in un altrove, uno scenario irreale dove per un giorno o per tutta la vita si diventa protagonisti di un sogno o di un incubo. Nella sua bipolarità è l’isola del verosimile. Sia la vita che la morte trovano la loro linfa nella finzione, nella rappresentazione scenica e ciò che nel resto del mondo è triste cronaca qui si trasforma, camaleonticamente, in intrigo e mistero. Sembra quasi che l’isola magica riesca ad esorcizzare la morte. Anche Dioniso nei suoi vagabondaggi capresi, nelle ore più calde dell’estate, diventa il dio dell’azzurra follia. Il magico potere delle Sirene volanti - Forse aveva ragione Tiberio. Nel mistero del canto delle Sirene si celava un segreto più profondo: l’elisir della lunga vita. In verità, la Capri sirenica era un prato fiorito di asfodeli coperto da ossa di cadaveri putrefatti. Omero la chiama Antemussa. Le Sirene volanti donavano ai naviganti l’oblio dei dolori del mondo, arpie, mostri che si trasformavano con il loro canto in sensuali ed eteree fanciulle. È il potere seduttivo e magico del canto l’arcano della loro metamorfosi. Nella cultura greca alle donne era proibito cantare: destabilizzava il potere degli uomini, li rendeva schiavi, senza difese, in balia delle maree dell’eros. Ma il naufragio sirenico più poetico è senz’altro quello di Bute, marinaio della nave Argo di Orfeo. Lo racconta Silvia Ronchey prendendo spunto dalle Argonautiche Orfiche e dai racconti di Apollonio Rodio. Bute decide di farsi divorare dalle Sirene per diventare il fiore più bello nel "giardino dei giardini", Antemussa, che cresce su uno scoglio che s’affaccia sul mare: Capri.

L’ENIGMA DELL’ISOLA DEI MORTI

Può un quadro diventare un’ossessione? L’isola dei morti del pittore svizzero Arnold Böcklin la fu per grandi protagonisti del Novecento. Commentando la sua opera il pittore affermò: «È un’immagine onirica. Deve produrre un tale silenzio che il solo bussare alla porta deve incutere terrore in chi lo osserva». A partire dal 1880 fino al 1886 Böcklin dipinse cinque versioni del quadro che raffigura una barca guidata da una figura spettrale che naviga verso un’isola. La sua visione provocò in Freud, Hitler, Lenin, Rachmaninov, Strindberg un grande turbamento. D’Annunzio e Dalì ebbero l’impressione di svenire ed entrare nel quadro. Hitler ne possedeva la terza versione, che collocò nel famoso ultimo bunker di Berlino. Riapparve poi nelle stanze moscovite di Lenin per ritornare, dopo il crollo del Muro di Berlino, nel museo della città. Negli anni Novanta il settimanale Spiegel chiese ad illustri critici quale paesaggio avesse ispirato il quadro secondo loro. Tre località italiane risultarono ai primi posti: Capri con i suoi Faraglioni, Ischia con il Castello Aragonese e, infine, il cimitero di Fiesole. Prima di dipingere l’opera Böcklin, diretto a Ischia per cure, giunse a Capri insieme ad Anton Dohrn. Conosceva le opere di Friedrich Preller che illustrano l’Odissea con scenari capresi. Alcuni critici ritengono che fu ispirato dalle pagine di Svetonio che descrivono una processione alla tomba di Masgaba, architetto di Augusto, a cui assiste l’imperatore dalla villa di Tragara. Douglas e Feola ritengono che i resti delle mura presenti sullo scoglio del Monacone e nel porto di Tragara siano la tomba di Masgaba. Monacone, Isola dei Morti? È indubbio che ancora oggi, nel linguaggio comune tedesco, Capri viene indicata oltre che come isola fantastica, magica, dei sogni e delle favole anche come Toteninsel, l’isola dei morti.

LA RUPE DEI DISPERATI

Timberio (così confidenzialmente viene chiamato a Capri) da sempre è stato l’eroe negativo, il principe nero, che ha plasmato nell’immaginario collettivo l’idea di un’isola maledetta, dove la turpitudine nei suoi eccessi diventa un magnete delle fantasie erotiche. Augusto per la storia è l’eroe rassicurante e beato, Tiberio l’imperatore tragico, condannato all’ignominia ma estremamente affascinante. Per secoli i bambini di Capri sono stati cresciuti dalle nonne con pane, olio, zucchero e storie di schiavi che volavano dalle rupi e di tesori nascosti. Il cavallo d’oro che Tiberio aveva sotterrato nel suo giardino segreto più bello è ancora il protagonista delle favole capresi. Ma sull’isola i misteri e gli assassini nel mondo romano antico sono innumerevoli. Gridano vendetta le anime vaganti di Crispina e Lucilla, rispettivamente moglie e sorella dell’imperatore Commodo. Esiliate sull’isola nel secondo secolo dopo Cristo, le due donne furono barbaramente trucidate dai suoi sicari. La tomba di Crispina ancora si erge maestosa su un terrazzo di Marina Grande che si apre sul mare. Lucilla fu più sfortunata: assassinata sulla spiaggia vicino al porto romano, fu condannata alla damnatio memoriae e le sue ceneri furono disperse tra i flutti. Ma Capri è stata anche l’isola dei falsi storici d’autore. Nella metà del Settecento fu trovata una stele funeraria vicino alla grotta di Matermania, dove si celebravano i riti misterici del dio Mitra, che in versi ricordava la triste sorte di Hỳatos e il dolore di sua madre. Ma a Capri anche la filologia classica subisce la sindrome di Tiberio. Pindaricamente Hỳpatos si trasforma in un povero schiavo, sacrificato a Mitra, o ancora meglio al crudele Tiberio. Una sceneggiata caprese ante litteram in salsa mitriaca-romana. Di questa storia maledetta subì il fascino anche il conte Fersen. Volle rappresentare nella grotta di Matermania un tableaux vivant con protagonista principale il suo amante Nino Cesarini, nella parte di Hỳpatos nella sua ignuda bellezza. Una ingenua fascinarella cogliendo erba li vide e, sconvolta da quella demoniaca visione, corse in paese dal parroco. Fu così che il povero Fersen, per far calmare gli spiriti puritani degli isolani, dovette abbandonare l’isola per la seconda volta.

GIALLO A METÀ

L’ultimo libro di Monaldi e Sorti, Malaparte. Morte come me, ha creato un grande polverone mediatico sulla morte di Pamela Reynolds, giovane poetessa inglese deceduta dopo un tragico incidente sugli scogli di Orrico. La donna abitava a Villa Monticello, la "piccola Oxford" di Anacapri. Incidente, suicidio o… omicidio? Nel romanzo si ipotizzano molti fantasiosi moventi ed esecutori: servizi segreti, sette religiose ed esoteriche di varia nazionalità. Ma come spesso succede a Capri, la finzione diventa realtà e ottantun anni dopo è stata depositata alla Procura di Napoli un’istanza di riesumazione del cadavere per presunto omicidio. Tutto questo senza ascoltare i discendenti della famiglia Reynolds che conservano la testimonianza diretta di Hermione, sorella di Pamela, che era presente quando avvenne il fatale incidente. Era con lei sugli scogli di Orrico quando Pamela precipitò in mare. Tanto rumore per nulla. Ci rimangono le sue poesie, bellissime e struggenti.

LA VOCE DELLE GROTTE

La roccia di Capri è magnetica. Il suo magnetismo provoca negli animi più sensibili una vertigine azzurra. Si ha l’impressione panicamente di percepire un leggero spaesamento. Ne parlano nelle loro opere Raffaele La Capria e Alberto Moravia. Una sindrome di Stendhal azzurra, simile a quella narrata nel libro Passaggio in India o nel film Picnic ad Hanging Rock. Ogni grotta di Capri ha il suo daimon, uno spirito inquieto che ogni tanto si materializza. Rimane ancora un mistero l’esatta collocazione della grotta Oscura, che il giornalista inglese Joseph Addison nel 1701 descrive nei minimi particolari, con i suoi labirinti di stalattiti e stalagmiti. La grotta celebrata dall’esoterismo e dalla teosofia (Diefenbach la dipinse in innumerevoli tele) collegava la Certosa con il mare. Il Cnr di Napoli ancora sta cercando questo incredibile passaggio verso il mare che il 15 maggio 1808 scomparve dopo il terremoto che fece crollare la torre della Certosa. Ma i capresi non si scoraggiarono.tLa sostituirono con la grott ru riavolo, che fu più romanticamente chiamata Grotta Azzurra. Forse era chiamata del Diavolo, oltre che per i colori e per le statue romane che s’intravedevano, come ci racconta lo scrittore Petraccone, per l’avventura di un povero pescatore che avendo arpionato un grosso pesce nelle acque antistanti alla grotta vide tutto il mare colorarsi di rosso, il suo arpione fondersi e la sua barca girare vorticosamente. Fantasia delle leggende capresi. Come le vicende del mostro, "la Cosa" che lo scrittore horror Hanns Heinz Ewers, scopritore della Grotta Bianca, nel racconto Il ghigno colloca nella Grotta del Bue Marino. Il mostro orrendo, secondo lo scrittore, sarà l’incubo onirico e la causa della morte di Oscar Wilde. Ma senza dubbio è la Grotta di Capelvenere, più comunemente chiamata grotta delle Felci, quella più vicina allo spirito omerico. Dimora dei primi abitanti dell’Isola, si trasforma nella dimora dei Lestrigoni, giganti antropofagi. Così come la Grotta del Fieno diventa la spelonca dove Polifemo allevava le sue capre.

L’ISOLA DEI SUICIDI-OMICIDI

Capri è stata per antonomasia, in un’irreale visione romantica, "l’isola dei suicidi". Futuristicamente, Gilbert Clavel con molta ironia ipotizza nel libro Istituto dei Suicidi tre modi in cui ci si può togliere la vita a Capri: ebbrezza alcolica, voluttà carnale e "Pantopon in dosatura specialissima". In Vento del sud lo scrittore inglese Norman Douglas, sapendo bene che quando soffia u bafuogno su questa isola la gente diventa un po’ pazza, narra come un rispettabilissimo reverendo inglese, arrivato su "Capri-Nepenthe", si possa trasformare in un potenziale assassino. Anche il premio Nobel Ivan Bunin, nel Signore di San Francisco, nel 1915 racconta di una misteriosa morte al Grand Hotel Quisisana. C’è quasi l’idea che sull’isola dell’amore non si possa ideare un omicidio perfetto anche perché ogni cadavere che viene trovato entra subito a far parte della casistica dei suicidi. Forse così aveva pensato, come ci narra lo scrittore dialettale Francesco Alberino, la famosa assassina anacaprese "Zupparella". Sapendo che suo marito aveva l’abitudine di mangiare sui cigli dei burroni di Monte Solaro, gli avvelena la focaccia. Sfortuna per lei, il marito fu chiamato in un giardino per un lavoro e decise di mangiare lì a marenn avvelenat. Grande processo con la condanna, a furor di popolo, della fedifraga "Zupparella". Ma sono tre i casi giudiziari che, negli ultimi quarant’anni, rimangono ancora insoluti. Agli inizi degli anni Ottanta un noto commercialista di Amburgo lasciò l’albergo Flora per la sua solita corsetta mattutina. Non ritornò più. La sorella, convinta che fosse stato ucciso, lo cercò per mesi con rocciatori e cani nelle selve e nei dirupi dell’isola. Nulla. Alla fine degli anni Ottanta una donna iugoslava fu trovata morta sul belvedere di Piazzetta delle Noci. Si ipotizzò il suicidio. Tre anni dopo, la sorella scrisse una lettera indirizzata ai principali giornali italiani riaprendo il caso e dimostrando tutte le incongruenze della perizia. Cinque anni dopo un efebico ragazzo tedesco di origini brasiliane fu trovato esanime sugli scogli della Fontelina. Apparentemente sembrava annegato, ma i suoi vestiti erano asciutti. L’autopsia rilevò un piccolo foro nella tempia causato da una penna-pistola di piccolissime dimensioni. Suicidi o omicidi? Ai giallisti l’ardua sentenza.

Renato Esposito

(Tratto da Capri Review, numero 37)