Confesso, l’unica mia lettura di Francesco Mastriani è stata "La cieca di Sorrento". Risale ai miei anni delle medie, quando fagocitavo, con curiosità insaziabile, Topolino, Verne, Salgari, Austen, Dumas, i grandi scrittori americani, senza fare distinzione alcuna fra autori impegnati o romanzi d'appendice. Stanziavano ritti in fila, striminziti o appoggiati l'un l'altro, senza distinzione sociale o snobismo culturale, sotto il florido rigore tomistico del Santo D'Aquino, nella libreria di mio zio, Fra Maurelio, ispettore generale degli istituti De La Salle, fumatore e lettore onnivoro, curatore di giovani anime, ma ribelle ingombrante dell'obbedienza letteraria pretesa ai suoi tempi. Quando ho cercato di ampliare le mie conoscenze su Mastriani, di capire quanto la sua personalità, la sua produzione letteraria avesse lasciato il segno nel panorama letterario italiano, ho scoperto, con mia grande sorpresa, che il nostro autore "gode" di una menzione distratta, di una memoria "secondaria", nonostante l'assoluto riconoscimento gratificatogli dalla Serao e da Croce. Il "gotha" enciclopedico Treccani adotta una procedura singolare: la voce "Mastriani" presente nella edizione completa, sparisce in quella "ridotta" a 10 volumi. Nei giorni scorsi è caduto il bicentenario della sua nascita ed anche se ho iniziato a leggere qualche pagina de "I misteri di Napoli" lascio ad altri il ricordo ed il commento su un "precursore veristico e del romanzo gotico" ma desidero focalizzarmi su quanto la sua travagliata esistenza abbia inciso sulla sua visione un po' naive nella narrazione di storie di Napoli, che egli stesso definiva piuttosto studi storico-sociali. Francesco Mastriani è un esempio di quella visione scapigliata romantica dello scrittore, dell'artista disadattato alla cruda realtà quotidiana, che in una continua lotta fra necessità materiali ed ideale bohemien, sarà perennemente preda di questa dicotomia esistenziale: quella che egli stesso definisce la sua "iettatura". Perché sebbene nato da famiglia non povera, per tutta la vita, in uno stillicidio di sfratti e cambiamenti di domicilio, nella continua ricerca di una dignitosa stabilità finanziaria, combatterà la sua personale, convinta iettatura, come quella delle classi popolari di cui "studierà", sotto forma di storie, le tragedie, le piccole miserie economiche e caratteriali. Come i grandi contemporanei Van Gogh e Gauguin, alternerà la sua vena creativa alle inquietudini della sua precarietà finanziaria, ai debiti, agli aiuti generosi di amici e parenti ed alla triste fatalità delle immature morti familiari. Mastriani, suo malgrado, è un epigono napoletano dell'artista maledetto del XIX secolo, e sembra che tale marchio l'abbia perseguitato post mortem, in un immeritato oblio letterario e toponomastico. Eppure si deve a lui la nascita di una narrazione cronistica, un preciso, scarno, anche pertinente stile informativo da giornalista d'inchieste. Forse è questo il limite che critici, letterati snob o più celebrati non gli hanno perdonato, relegandolo in un limbo agnostico e fumettaro. Fu considerato "scrivano" più che scrittore, anche perché vittima inconsapevole della confusione culturale e politica che visse in prima persona fra caduta del Regno Borbonico e avvento della monarchia sabauda. Rimase suo malgrado ai margini della notorietà che avrebbe meritato e che soltanto l'improvvisa decadenza a periferia culturale italica della ex capitale borbonica gli negò. A mio avviso, Mastriani sarebbe stato un fecondo librettista di melodrammi, senza nulla da invidiare a Giacosa od Illica, perché il suo costrutto narrativo si rivela calzante per la melodia romantica di Puccini o veristica di Mascagni, ad esempio. Ma così non è stato. L'indigenza economica, i dolori familiari hanno avuto la meglio, ed oggi, a 200 anni dalla sua nascita, seppure convinti del suo retaggio culturale, popolare e squisitamente meridionalista, denunziamo il colpevole oblìo della sua Napoli, la sottostima nazionale e le sue parole perdute.