Populismo: Masaniello e sanculotti, la gente che piace a Di Maio e Conte. È piuttosto strano che il ministro dello Sviluppo e del Lavoro della settima potenza industriale del mondo, cioè dell’Italia, sia un teorico della "decrescita felice".

Vale a dire, stando al vocabolario della lingua italiana, un teorico dell’esatto contrario della sviluppo, cioè del compito istituzionale del ministero affidatogli. La "decrescita felice" è infatti una delle cinque stelle polari che danno il nome al Movimento5Stelle (M5S) assieme con l’illusione seminata da Beppe Grillo che "se in Italia non ci fossero i partiti ladri e i giornalisti asserviti potremmo vivere tutti come in un albergo a 5 stelle".

Credere che l’economia, la produzione e lo sviluppo possano essere rilanciati alla grande da un simile ministro è un po’ un azzardo, se non un atto di fede. Un ministro dello Sviluppo deve infatti perseguire una crescita possibilmente felice, e NON una decrescita anche se felice. Ed è parimenti strano che un giovane di appena 31 anni, che del lavoro sa poco o nulla per averlo praticato poco o niente, sia il ministro del Lavoro della stessa settima potenza industriale del mondo, cioè sempre dell’Italia.

Basta guardare la foto della mano aperta di Di Maio a Porta a Porta per avere anche una prova visiva e anatomica del fatto che si tratta della bella manina di chi non l’ha mai usata per lavorare se non per modo di dire. Così come è mortificante, se non squalificante, che sia un tale giovane privilegiato a minacciare l’occupazione quanto meno nei giornali, tramite l’eliminazione dei contributi pubblici ad alcuni di essi, i più bisognosi, a volere i prepensionamenti nelle aziende a partecipazione statale, nell’illusione che poi assumano giovani e a voler bastonare i pensionati sia pure "d’oro" tagliandone di netto l’assegno mensile bloccando a vita la perequazione.

Peraltro, la gran parte dei pensionati "d’oro" la pensione se l’è guadagnata versando durante tutta la vita lavorativa contributi previdenziali d’oro. E se la loro pensione è maggiore dei contributi versati non è frutto di un esproprio come quello che vorrebbe Di Maio ma di leggi dello Stato. A 31 anni oggi in Italia si è poco più di un ragazzo, specie se come Luigi Di Maio si è cresciuti e rimasti nella famiglia benestante del padre impresario edile e della madre professoressa (di latino) e se ci si è iscritti all’Università per restare studente fuori corso (di giurisprudenza) preferendo darsi alla politica anziché studiare e superare gli esami del corso di laurea.

Certo, Luigi Di Maio potrebbe essere un enfant prodige. Ma finora nulla autorizza a pensarlo. Anzi, alcuni recenti strafalcioni – oltre a qualche minaccia gridata e rientrata e alle grandi e fulminee promesse elettorali da realizzare "in venti minuti al primo consiglio dei ministri", ma non mantenute – fanno pensare che Di Maio sia non un enfant prodige quanto invece un incompetente anche in cose decisamente non trascurabili per un parlamentare e ministro.

Come è noto, di recente a Porta a Porta ha promesso a Bruno Vespa e a qualche milione di telespettatori una denuncia alla magistratura perché a suo dire una "manina" aveva fatto sparire una frase importante e qualificante dal decreto fiscale approvato dal consiglio dei ministri e sempre a suo dire inviato al presidente della Repubblica per la firma. Tralasciamo il grottesco balletto di smentite, controsmentite, accuse reciproche tra Di Maio e Salvini tra gli equilibrismi del premier Giuseppe Conte, finito a tarallucci e vino. Sì, tralasciamo.

Non si può invece tralasciare che la minaccia di Di Maio di denunciare il misfatto alla magistratura era solo una corbelleria. Una brutta gaffe. A parte il fatto che non esiste nessun reato se una eventuale "manina" modifica un testo che non è ancora un atto pubblico ma, finché il Quirinale non firma, solo poco più di una dichiarazione d’intenti, la cosa che taglia la testa al toro è che la magistratura non può assolutamente mettere il naso in faccende come queste data la ferrea distinzione tra potere esecutivo (governo), potere legislativo (parlamento) e potere giudiziario (magistratura) esistente da qualche secolo e sancito dalla nostra Costituzione.

Che uno studente di giurisprudenza, anche se fuoricorso, non sappia certe cose è francamente incredibile. E non depone certo a favore dell’eventuale enfant prodige. Spiace che a farlo notare sia stato di fatto solo l’onorevole Vittorio Sgarbi con un intervento urlato in parlamento. Di Maio inoltre ama presentarsi come difensore "del popolo", definisce anche lui il premier Conte, che di professione è un avvocato, avvocato "del popolo", e la manovra economica approvata dal governo e annunciata trionfalmente Urbi et orbi dal balconcino di palazzo Chigi l’ha definita manovra "del popolo".

Qui sorge un altro problema che sembra formale, ma non lo è: infatti è sostanziale. Di Maio con questa sua entusiasta inflazione della parola "popolo" mostra di ignorare una cosa fondamentale: il popolo italiano è composto da TUTTI gli italiani, ricchi e poveri, straricchi e poverissimi, nullatenenti e possidenti, evasori fiscali e contribuenti, elettorato dei partiti di governo ed elettorato dei partiti dell’opposizione più chi non vota affatto per scelta o perché non ha ancora l’età per poterlo fare.

Strano che uno studente di giurisprudenza, ancorché fuoricorso, ignori che per esempio le sentenze nei tribunali vengano emesse in nome del "popolo italiano": il che è la dimostrazione lampante che il popolo italiano NON è quello che intende Di Maio, ma ANCHE quello che lui ritiene nemico o comunque diverso della parte di popolazione che lui definisce tout court popolo. Ancora più strano, e imperdonabile, che il fuoricorso, vicepremier e ministro dello Sviluppo e del Lavoro della Repubblica italiana ignori che la Costituzione stabilisce che "la sovranità appartiene al popolo".

Altra prova tranchant, fulminea e fulminante che il popolo italiano NON è quello cui si riferisce il giovine Di Maio. Che è stato smentito anche dal suo superiore Giuseppe Conte. Questi infatti in un recente discorso ci ha tenuto a chiarire che per popolo lui intende l’INTERA società italiana, non solo quella omaggiata e gratificata da Di Maio, e che lui lavora per eliminare il fossato che la separa dal ceto politico, che peraltro, Costituzione alla mano, fa parte anch’esso del popolo. Insomma, Conte in soldoni dice di lavorare per eliminare una frattura in seno al popolo. Il problema comunque è che tutti costoro, Salvini e Lega compresi, hanno in mente una concezione del popolo come entità piuttosto destrutturata.

Massa informe, come una gigantesca ameba. Nel suo discorso citato Conte ha infatti affermato: "Io sono populista. Il populismo significa dedicarsi a tempo pieno a questa responsabilità stando vicino ai bisogni della gente". Discorso che va bene per un benefattore, un filantropo , un frate francescano o per la S. Vincenzo, ma certo non per un capo di governo. Il problema infatti è che non esiste la "gente" come massa omogenea e indistinta, alla quale poter stare "vicino" senza essere lontani da altra gente. La "gente", infatti, e il per loro (cioè di Conte, Di Maio e Salvini) equivalente popolo, è divisa in classi e ceti sociali, professioni, fasce di età e reddito. Esattamente come il corpo umano è diviso in strutture, organi e tessuti tra loro assai diversi e con funzioni e compiti diversi.

I partiti esprimono e organizzano gli interessi delle classi e dei ceti cui ciascuno di loro fa riferimento, e a discapito delle classi e dei partiti cui fanno riferimento i partiti avversari. IMPOSSIBILE quindi e ILLUSORIO stare "vicino ai bisogni della gente" tutta senza privilegiare i bisogni di una parte della "gente", in tal caso del proprio bacino elettorale e sociale, a discapito dei bisogni di altra gente, cioè di altri bacini elettorali e sociali. La concezione destrutturata di popolo, cavalcata in epoche passate dai vari Masaniello e sanculotti, oggi è tipica del peronismo.

Che ha colato a picco l’Argentina: nel dopoguerra era uno dei Paesi più promettenti del mondo, il peronismo l’ha ridotta come l’ha ridotta spalancando le porte ai vari colpi di Stato militari e annessa strage clandestina di migliaia di oppositori. Il peronismo, tuttora base e retaggio delle repubbliche delle banane, è sempre finito male. E per spiegare il perché non c’è bisogno di dare in escandescenze dando del fascista a qualcuno, certo non sono fascisti Conte, Di Maio e Salvini: il problema è che non si può guidare un’auto considerandola una massa compatta, alla quale "stare vicino", anziché rendersi conto che ha un volante, un serbatoio, un motore, a benzina o a gasolio o elettrico o a metano o misto, una pedaliera con freno, frizione e acceleratore, un sistema di accensione e dei cambi, automatici o manuali, delle frecce da azionare prima di spostarsi e degli specchietti retrovisivi.

Se l’auto la si vuole guidare senza tenere conto di tutto ciò, pensando invece che sia una massa indistinta, non strutturata, andare a sbattere o finire fuori strada è inevitabile. Quali che siano le intenzioni, anche le migliori, di destra, sinistra o centro. E quali che siano gli itinerari di viaggio desiderati. O, meglio, sognati.