Piazza Marsala è un angolo del centro di Genova, famoso per una fontana che ci sta in mezzo e fino a poco tempo fa per un noto ristorante. Adiacente è il Teatro Stabile, tempio della cultura locale dai mitici tempi di Ivo Chiesa e Luigi Squarzina. Non è mai successo niente in piazza Marsala, che confina con Piazza Corvetto, il vero centro di Genova, la statua equestre di Vittorio Emanuele II, il crocevia elegante dell’ombelico genovese, la strada delle botteghe nobili, via Roma, la Prefettura che si staglia, tutte le deviazioni del cuore centrale di questa città un po’ in salita, un po’ in discesa. Dall’altra parte di piazza Corvetto, un’era geologica politica fa, Sandro Pertini scendeva dal suo ufficio al Lavoro, nel retroterra della Prefettura, per un cappuccino da Mangini, ancora oggi watering hole dei genovesi che contano.

Ebbene in piazza Marsala, dove l’unica notizia riportata dalle cronache è stata negli ultimi decenni il grande freddo del gennaio 1985, quando la gelata aveva reso un monumento di ghiaccio la sua fontana, i potenti strateghi dell’ordine pubblico, la Prefettura, la Questura genovesi, il capo della polizia Gabrielli e, sopra di lui, lo svolazzante per l’Italia ministro dell’Interno, Matteo Salvini, hanno consentito, a norma di legge, una sparuta manifestazione (venticinque partecipanti contati) di CasaPound, comizio elettorale, quindi obbligatorio nei luoghi deputati e scelti dal Comune, dal sindaco Marco Bucci.

Venticinque neofascisti, pronti alla loro rituale apologia nostalgica, chiusi in questa piazza blindata da autoblindo e reti antisommossa, con uno spiegamento di trecento uomini in assetto, scudi, manganelli, gas lacrimogeni. Sembrava, in questa piazza Marsala e nel centro intero della città, di essere tornati all’epoca del G8, con il divieto di posteggio in tutte le strade limitrofe, lo spostamento dei cassonetti della spazzatura, il blocco anche a chilometri di distanza delle vie di accesso nella zona. Insomma un caos del traffico per tutta la giornata, anche se la manifestazione di questi 25 era prevista per le 18. Si può autorizzare una manifestazione "pericolosa" nel centro della città, nell’ora di punta del pomeriggio, quando si temono disordini, al punto di blindare il cuore di Genova? Si può lasciar fare in quella piazza lo show nostalgico elettorale ai residuati neofascisti, che volevano imporre la loro presenza? O, sapendo che la provocazione avrebbe scatenato una reazione dura degli antifascisti, non era meglio spostare in un altro luogo elettorale, scelto nell’elenco, meno baricentrico?

Così fecero, decenni fa, i loro predecessori per la rentrée genovese di Giorgio Almirante post giugno 1960. Gli fecero tentare di fare un comizio nei giardini pubblici davanti alla stazione ferroviaria di Brignole. Ci furono disordini, cariche anche allora ma la città quasi non se ne accorse. Sarebbe stato meglio anche questa volta, ma il prefetto, il questore, il capo della polizia, e anche il capo del ministero di Matteo Salvini, hanno lasciato che il programma andasse avanti come se avessero scelto il copione giusto per quello che temevano. E così quei venticinque in mezzo alla piazzetta ottocentesca di antiche usanze borghesi e gastronomiche sono diventati la miccia dell’incendio che per qualche ora ha riportato Genova non solo ai tempi del G8, anno 2001, alle devastazione, alle cariche, all’aria satura di gas, alla paura, agli scontri fisici che non si vedevano da allora, o addirittura allo storico giugno 1960, quando la reazione era stata contro il congresso dell’MSI organizzato a Genova per provocare la sua storia antifascista di città che si era liberata da sola dal gioco nazi fascista. Perché era inevitabile che il corteo antifascista, composto da forze dissimili, non solo quelle pacifiche dell’Anpi, delle Comunità, dei partiti democratici e dei sindacati, ma anche formato dagli antagonisti, le frange estreme dei centri sociali, i picchiatori di professione, pronti sempre a mescolarsi per provocare l’incendio, circa mille manifestanti in tutto, andasse all’attacco, cercando di sfondare la barriera dietro la quale i 25 di CasaPound esibivano i simboli della loro cultura di estrema destra, fieri di farlo in faccia alla città dalle antiche tradizioni antifasciste.

E così è scoppiato il caos, che ha tenuto in scacco per qualche ora il centro della città con cariche, lancio di gas lacrimogeni, arresti, feriti nello scontro tra la polizia e i manifestanti anti CasaPound. Perché è lì che lo sconquasso si è creato. CasaPound era nella sua piazzetta-isola protetta, inaccessibile e più che qualche biglia lanciata dagli avversari oltre lo sbarramento e qualche refolo di gas lacrimogeno, non ha sopportato nulla, fino a quando le forze dell’ordine hanno scortato tutti al riparo. Intorno al blocco, invece, la violenza è stata la stessa di tanti anni fa: gli uomini della polizia anti sommossa hanno caricato almeno sei volte i manifestanti nella piazza principale e nelle strade limitrofe e arrestato cinque persone.

Chi ha pagato il prezzo più pesante è stato un cronista di Repubblica, Stefano Origone, che stava facendo il suo lavoro per raccontare la manifestazione, in una posizione riparata di una strada laterale, osservando i movimenti della polizia e dei manifestanti, quando improvvisamente una carica ha travolto anche lui. La polizia aveva individuato un manifestante che stava organizzando una reazione agli spostamenti dei suoi uomini ed è partita all’attacco. Origone ha raccontato dalla barella in cui lo hanno poi raccolto che aveva cercato di defilarsi, ma i poliziotti, a manganelli e scudi alzati, gli sono piombati addotto come furie. "Gridavo: sono un giornalista, sono un giornalista! Ma non si sono fermati, mi hanno colpito con i manganelli, con gli anfibi, cercavo di proteggermi a terra con le mani, ma loro continuavano. Urlavo: basta, basta! E quelli continuavano a colpirmi. Non mi vergogno di dire che ho pensato di morire…"

A un certo punto un poliziotto, un vice questore, ha riconosciuto Origone, che frequentava in Questura come cronista di cronaca nera e si è buttato su di lui per difenderlo, gridando: "E’ un giornalista!" "E quelli – spiega il giornalista – come automi si sono fermati". Così si è salvato il cronista di Republica, poi aiutato dallo stesso vice questore, che ha chiamato una autoambulanza. La prognosi non è leggera: Origone ha avuto spezzate tre dita di una mano, una con frattura scomposta, ha tre costole fratturate, tutta una parte del corpo duramente segnata anche dagli scarponi della carica. Respira a fatica, ma non è sotto choc e ha ricevuto la visita del questore di Genova che si è scusato.

I disordini non hanno riguardato solo il cronista, che stava lì a fare il suo lavoro, ma altri travolti da una carica durissima. Il corteo è stato disperso inizialmente, ma poi si è ricomposto per avviarsi verso la Questura, dove erano stati portati i fermati e dove il questore è dovuto uscire e trattare se no l’assedio sarebbe durato tutta la notte. Così l’errore strategico di concedere quella piccola piazza per un comizio elettorale a una forza che non ha nulla a che fare con la storia di Genova e che poteva svolgere la sua manifestazione in altri luoghi coperti e scoperti della città, ha trasformato un pomeriggio pre-elettorale in ore di violenza. Inevitabili le polemiche anche contro il sindaco Bucci, che non aveva vietato il comizio, cosa che non era nei suoi poteri, ma in quelli della Prefettura e della Questura, troppo superficiali nel rifugiarsi dietro la formula: "Noi dobbiamo garantire l’esercizio dei diritti elettorali dovunque". Bastava un po’ di buon senso e un ragionamento tattico sulla geografia genovese: un atteggiamento che in passato era sempre stato osservato.

Certo ora la polemica forte è sulla politica del Governo in materia di ordine pubblico: l’orientamento sarebbe cambiato grazie agli input di Salvini e del suo dicastero con tolleranza verso le formazioni più estreme della destra, cui sono concessi non solo comizi in zone pericolose, ma anche atti di apologia del fascismo, come i bracci levati nel saluto romano, esposizioni di effigie del ventennio, inni a Mussolini e camerati. Certo se il ministro dell’Interno continua a definire lo scontro tra fascisti e antifascisti come un derby, in questo ultimo caso genovese l’arbitro della partita non ha garantito un gioco regolare, ma ha protetto una squadra e pestato l’altra, coinvolgendo anche chi non c’entrava nulla, come lo sventurato cronista di Repubblica, Stefano Origone.