Se un capo politico deve registrare il dimezzamento del proprio elettorato nel giro di un solo anno, non può permettersi di fare finta di nulla annunciando che d’ora in avanti il proprio partito verrà rinnovato. Alla vigilia del voto del 26 maggio si prevedeva che se il Movimento 5 Stelle fosse riuscito a conservare una quota elettorale superiore al venti per cento la leadership di Luigi Di Maio non avrebbe subito scossoni. Ma la previsione è stata travolta da un risultato particolarmente deludente. Ed ora il capo politico grillino ne paga le conseguenze, come è logico che sia. Può essere che sia costretto alle dimissioni o che debba lasciare ad un direttorio la guida del partito conservando il ruolo di vicepresidente del Consiglio.

Qualunque sia la formula che verrà usata, Di Maio non sarà più l’uomo solo al comando del popolo grillino ma dovrà rientrare nei ranghi come accade normalmente ad ogni leader sconfitto. Il ridimensionamento di Luigi Di Maio è destinato a riflettersi negativamente sulla stabilità del governo. L’azzoppamento di Luigino mette in crisi la diarchia con Matteo Salvini che fino ad ora è stata, molto più del contratto di governo, il collante più solido dell’Esecutivo giallo-verde. La solidarietà generazionale e, forse, un pizzico di amicizia personale, hanno favorito i compromessi e tenuto in piedi la baracca. Senza questi fattori e con un Salvini costretto a vedersela con un intero direttorio, per Giuseppe Conte si prospettano tempi decisamente bui.

Per il M5S, però, il proprio problema di fondo non si chiama Di Maio ma si chiama linea politica. Che fare, adesso? Conservare una alleanza di governo, malgrado il ribaltamento dei rapporti di forza con la Lega, correndo il rischio di perdere nuovamente identità e voti nell’arco del prossimo anno? Oppure tornare all’opposizione rivendicando il diritto di staccare la spina al governo per conservare la propria purezza originaria e scongiurare il rischio di nuovi smottamenti elettorali? La questione è aperta e toccherà a dirigenti grillini di risolverla nel minor tempo possibile. Ma per affrontarla correttamente dovranno essere consapevoli che questioni di genere sono quelle che compaiono tragicamente alla fine di un ciclo. L’esempio della parabola qualunquista dell’immediato dopoguerra dovrebbe fare scuola!

ARTURO DIACONALE