La strada è sì lunga, ma intanto la maggioranza di governo fissa i primi paletti, circoscrivendo il campo d'azione e spazzando via in un sol colpo ogni ipotesi di proporzionale puro (inviso al Pd e al segretario Nicola Zingaretti). I dem, però, devono 'cedere' sul maggioritario, che esce di scena, per la gioia di M5s e Leu. Scelta che, in realtà, non dispiace nemmeno a Italia viva. Il timing che i giallorossi si sono dati, poi, è abbastanza serrato: entro un mese, al massimo il 20 dicembre, sarà incardinata in commissione alla Camera la proposta di riforma della legge elettorale.È l'esito del primo vertice sulla riforma del sistema di voto, durato circa due ore e terminato - come ormai da prassi della nuova maggioranza - con un documento unitario in cui si dice chiaramente che, "in coerenza con il programma di Governo che si e' posto l'obiettivo di incrementare le garanzie di rappresentanza democratiche, assicurando il pluralismo politico e territoriale, si è convenuto che non siano praticabili soluzioni fondate su collegi uninominali maggioritari né modelli proporzionali senza correttivi".

LE DUE IPOTESI SUL TAVOLO

In sostanza, sono due le ipotesi su cui si lavorerà, anche se l'accordo è ben lungi dall'essere vicino: un doppio turno nazionale, con la possibilità di apparentamenti tra il primo e il secondo turno, e un proporzionale con soglia di sbarramento alta, almeno al 5%. Il primo sistema piace al Pd che, seppur abbia acconsentito ad accantonare i collegi uninominali, non ci sta a rinunciare del tutto ai correttivi maggioritari. Il secondo modello piace ai 5 stelle. Quanto a Leu, bene il proporzionale (così come il doppio turno), ma sulla soglia ci sarà da discutere. Idem Italia viva: ufficialmente i renziani sono aperti a ragionare su tutte le ipotesi (anche se non è sfuggita l'assenza al vertice della capogruppo Maria Elena Boschi). Nella maggioranza, tuttavia, non si fa mistero del fatto che le prime frizioni potrebbero arrivare proprio sulla questione delle soglie.

IL NODO DELLE SOGLIE DI SBARRAMENTO

Il Pd, dal suo punto di vista - spiegano fonti che si stanno occupando del dossier - ritiene "preferibile ragionare su un sistema con premio di maggioranza alle coalizioni, analogo a quello in vigore nei comuni medio grandi". In casa dem si starebbe ragionando su un modello che prevede un primo turno in cui si presentano singole liste o coalizioni; ma se nessuno raggiunge il 50% si torna a votare e si possono anche fare coalizioni ulteriori. Tra le ipotesi ci sarebbe quella di un premio fino al 55%. L'imperativo, vine spiegato, è che si metta in campo un sistema elettorale che garantisca stabilità e governabilità. I dem, però, non escludono nemmeno l'ipotesi di un sistema elettorale con "significative soglie di sbarramento". Il doppio turno per ora viene visto come fumo negli occhi dai pentastellati, che spingono sul proporzionale con sbarramento alto, ed è da lì che intendono partire. I 5 stelle, viene riferito, lo avrebbero detto chiaro e tondo agli alleati. Al di là dei tecnicismi, il tema della riforma si intreccia con quello delle alleanze, ma soprattutto con l'eventualità di un ritorno anticipato al voto. E nella maggioranza c'è chi osserva che la 'stretta' sulla trattativa sulla legge elettorale nasconda anche l'intenzione di farsi trovare 'pronti' in caso la situazione precipitasse dopo la manovra. Certo, c'è la questione del taglio dei parlamentari e della sua entrata in vigore. E molto dipenderà dal referendum.

LA VARIABILE DEL REFERENDUM

Al Senato prosegue la raccolta firme (sono già a quota 50, sulle 64 necessarie) e tutti, maggioranza ma anche opposizioni, attendono di capire se la consultazione popolare si svolgerà: gli scenari che si potrebbero verificare sono infatti due. Se il referendum non si tenesse, la legge per la riduzione dei parlamentari entrerebbe in vigore il 12 gennaio e dovrebbero poi passare altri sessanta giorni per ridefinire i collegi; dal 12 marzo, dunque, se il governo cadesse, si potrebbero sciogliere le Camere con la certezza di votare eleggendo 'solo' 600 parlamentari. Se, invece, il governo cadesse prima di quella data, si eleggerebbero tutti e 945 i parlamentari. Con il referendum - che potrebbe svolgersi non prima di maggio - l'entrata in vigore della riforma slitterebbe di qualche mese: eventuali elezioni con il nuovo sistema si potrebbero dunque svolgere solo in primavera inoltrata o in autunno. Anche in questo caso, se il governo cadesse entro maggio, la legge di riduzione dei parlamentari non entrerebbe in vigore e si eleggerebbero 945 parlamentari.

I PALETTI DEL QUIRINALE

Chi ritiene, nel Pd, in Italia Viva e nei M5s, che il governo debba proseguire nel suo lavoro, dunque, sta valutando se sia meglio far svolgere il referendum o no. Per alcuni se la legge entrasse subito in vigore i parlamentari sarebbero lusingati dalla possibilità di restare in carica solo evitando la crisi di governo, per altri fa premio invece il timore che votando con la vecchia legge ci si attirerebbe il sospetto di voler conservare un alto numero di 'poltrone'. E c'è anche chi attribuisce al Capo dello Stato la volontà di far votare gli italiani con la riforma in vigore, ma queste sono solo ipotesi che nascono in Transatlantico. È vero che esiste la consapevolezza che politicamente sarebbe un elemento da valutare l'eventuale richiamo al voto con una legge vecchia, in presenza del varo già attuato della nuova legge. Ma il Presidente ha già fatto trapelare che in caso di caduta dell'attuale esecutivo non permetterebbe al Paese di rimanere in stallo e scioglierebbe le Camere. Ma per il momento tutte queste sono solo ipotesi, il governo è in sella e deve affrontare l'indifferibile compito di varare la manovra per il 2020; dopodiché nulla è già scritto. Non si sa se il governo cadrà, per iniziativa di chi e quali saranno le posizioni dei partiti e il Presidente Mattarella ha già più volte dimostrato di voler procedere solo alla luce dei fatti reali che gli vengono presentati, senza prefigurare nulla