GENOVA – Guardo dall’alto la mia città silenziosa e chiusa. La guardo per il privilegio della mia casa sulla collina, sul tetto della città, dalla prospettiva ampia. Che abbraccia il golfo di Genova, il porto, l’arcobaleno ligure, dal promontorio di Portofino con la sua punta nel blù di un mare strinato di azzurro, fino a Capo Mele. Laggiù oltre le praterie sterminate delle onde piatte. Tutto immobile e silenzioso come mai non lo è stato. Neppure quel rumore compatto della città di sotto, il traffico spalmato nelle strade, lo stridore di qualche cantiere. Solo l’urlo delle sirene, intermittente, angoscioso, continuo. O almeno così ti appare. Viene da vicino o da lontano e, o vedi l’auto ambulanza nelle strade più prossime con le lucine blù che viaggia nel vuoto delle strade o lo percepisci da lontano e immagini il suo percorso verso un ospedale con il suo carico di dolore, di speranza o di disperazione. L’ultimo ammalato portato via dalla macchina dei soccorsi o di chissà cosa, verso il tunnel dell’ospedale, del "triage", delle visite, dei tamponi, delle cure. Dentro, dentro fino alla maschera di ossigeno, il respiratore, la posizione supina o quella prona.In quella scena di mascherine, protezioni, scafandri, caschi, visiere per salvare le vite. Vedo tutto questo mentre parte un’altra sirena dalla pancia silenziosa di Genova dall’alto. E magari un’altra ancora da un altro angolo più lontano, in modo che il sibilo è più attutito, sembra perdersi come vorresti si perdesse il virus che sta a bordo insieme all’ultimo paziente. É invece il lamento della sirena riparte, magari dopo una curva e ti lacera ancora. Avrà più pace questa città? Come tutte le altre oramai in tutto il pianeta che vivono la stessa scena? Oltre lo sfondo quasi incantato della bellezza di un giorno di sole, di mare blù, di cielo blù, di primavera esplodente? Con questi gabbiani che planano sui tetti, e tu puoi ammirarli dall’alto? "Da quale città vedi i gabbiani dall’alto?", si era chiesto orgoglioso e compunto uno come il genovese Renzo Piano, l’architetto, raccontando la bellezza e la forza della sua città nei giorni duri della caduta del ponte Morandi. Li vedi a Genova i gabbiani dall’alto, perché è una città saliscendi. E ora quella storia dolorosa del ponte caduto, che sembrava una tragedia immane e che per venti mesi oramai ha tenuto la città piegata su se stessa, spezzata, un po’ ricucita, un po’ rianimata, un po’ no, quella storia diventata mondiale, si rimpicciolisce davanti a questa tragedia dell’ epidema, della pandemia, che spezza ben altro che una città, le sue comunicazioni. E come sembra piccolo il problema di quelle autostrade malridotte, piene di cantieri, di gallerie interrotte, di crolli, di cedimenti, di frane incombenti, di code inimmaginabili prima, di percorsi quintuplicati nei tempi degli spostamenti, a fronte di questo nemico invisibile che le ha svuotate completamente, come ha svuotato tutto. Ti chiedi, sempre guardando dall’alto della città, il suo mare strinato di quel blù ora quasi indaco: cosa mai penseranno gli equipaggi delle navi che scorgi al largo del porto in mezzo al golfo, incerti apparentemente se avvicinarsi alle banchine, ai moli, di una città in pandemia, di un mondo in pandemia, dove la paura di quel nemico invisibile strisciante e assassino ha desertificato tutto. Eppure proprio da quell’ultima tragedia genovese e italiana che era stato il ponte Morandi crollato, sbuca una speranza, un segno di vita in questo scenario silenzioso, muto, immobile di paura e di divieti, per i quali appena incroci il passo di un tuo simile nelle strade vuote ti scansi come se fosse un appestato. Proprio questo pensi e ti vengono i brividi a formulare la parola "appestato", perché questa è la peste del nostro Terzo Millennio. Sbuca un movimento di vita e non di morte e non di rassegnazione e non di chiusura alla speranza. Nella sera di domenica un altro pezzo lungo cento metri e pesante 1800 tonnellate del nuovo ponte in costruzione da pochi mesi è "salito" in quota ed è stato saldato al resto. In modo che ora nel cielo occupato fino a dieci mesi fa da quello "morto " e defunto, ci sono 800 metri, ne mancano 207 alla fine del miracolo. Quattro pezzi da cinquanta metri più qualche saldatura e la ferita sarà rimarginata e la valle del Polcevera sarà di nuovo scavalcata da un altro ponte, neppure due anni dopo la tragedia e già sono pronte le tonnellate e tonnellate di calcestruzzo, che saranno spianate su quell’impalcato disegnato da Renzo Piano e costruito da Salini Impregilo Fincantieri e Italferr e diventeranno la nuova pista. Quella che sostituisce l’altra interrotta il 14 agosto del 2018 alle 11,37 di un giorno maledetto. Un miracolo: questi cento metri a forma di chiglia di nave di acciaio luccicante sono stati "issati" lentamente, partendo dal fondovalle, sopra la linea ferroviaria e le cento strade della urbanizzazione confusa di questo pezzo di città. Una lenta salita, precisa al millimetro, terminata poco prima delle nove di sera, nel buio di un’altra notte difficile, dove il rumore delle macchine era il solo a sentirsi nel silenzio da coronavirus. Il sindaco di Genova Marco Bucci viene a raccontarlo questo piccolo, grande passo del ponte nuovo, nella conferenza stampa durante la quale la Regione fa il punto sul Coronavirus. Parlano il presidente della Regione Giovanni Toti, la assessora alla sanità, Sonia Viale e il primario delle malattie infettive dell’Ospedale San Martino, Matteo Bassetti. Loro raccontano il bollettino del contagio, che sono cifre di ammalati, di rianimati, di morti, che sono il lavoro degli ospedali, dei medici, degli infermieri, delle strutture che lottano per salvarci dall’epidemia. Giorno per giorno , numero per numero, in una specie di liturgia quotidiana attesa con il fiato sospeso, un’ora dopo quella nazionale. Nella quale la la Protezione Civile annuncia i dati allargati, in una cerimonia che diventa l’appuntamento cruciale per gli italiani, come una Radio Londra dell’anno Duemilaventi, durante il cui ascolto si misura quanto il nemico è avanzato nella trincea, quanti sono i caduti, quante le nuove armi sono servite. E’ un momento in qualche modo drammatico, sia quello ligure sia quello nazionale. Oggi che il sindaco viene ad annunciare come il nuovo ponte sia quasi finito, o per lo meno si avvii alla conclusione della sua incredibile costruzione di piloni e conci di metallo e impalcati incastrati da gru e cavi che sembrano venire da un altro mondo, i morti sono in Liguria 41 ed è una cifra molto vicina a quei 43 morti del Ponte Morandi. Quarantatrè morti nella voragine apertasi in quel maledetto giorno di agosto.Tutti in un colpo solo e, invece, questi 41 vanno ad aggiungersi alla pila dei 150 precedenti, che sono una parte dei 620 che elenca la contabilità nazionale per la stessa giornata. Non c’è, quindi, proporzione tra le due tragedie, ma Bucci, il sindaco, insiste nel sottolineare il successo del ponte che è anche la conseguenza di come ha funzionato il cosidetto modello Genova, una procedura senza intoppi burocratici, senza freni giudiziari di ricorsi od eccezioni di qualsiasi tipo. Ed è come se, rivendicando quel risultato, dicesse quello che tutti pensano: che i poteri eccezionali vanno invocati anche nella battaglia contro il virus maledetto. Una volta ce l’abbiamo fatta, lavorando concordemente, possiamo farcela anche in questa altra avventura, che non è una battaglia, ma una guerra vera. Mentre l’ultimo o penultimo pezzo del ponte saliva verso le altre campate, già distese tra i piloni piantati nella pancia della Valpolcevera, tre fari rischiaravano il tragitto di questa nuova infrastruttura da un capo all’altro. Bianco, rosso e verde, tre fasci di luce nella notte più buia che si ricordi, più buia forse anche di quelle dei bombardamenti bellici, perché la città intorno, e quella sotto le campate, era chiusa, sigillata dalle ordinanze, dai divieti e dalla paura per l’avanzata del nemico. Così il nuovo ponte ancora senza nome, ma con tanti simboli emblematici in ogni suo centimetro per Genova, per l’Italia, accende la notte genovese più spenta che mai. Non è stato facile e non lo sarà affatto domani e avanti nel tempo, perché il nemico coronavirus è arrivato anche qua, anche in questo cantiere da mille uomini, che sta tirando su il ponte, e ha messo in crisi diverse delle aziende che lavorano senza sosta all’impresa del riscatto. Una azienda si è ritirata perché molti dei suoi operai volevano tornare a casa in Lombardia, a fronteggiare l’epidemia a fianco delle loro famiglie. L’hanno sostituita questa azienda lombarda, hanno dirottato nel cantiere anche altre forze impegnate in una altra grande opera pubblica di questo territorio, il Terzo Valico, la linea ferroviaria veloce tra la città e la Pianura Padana. Si sforzeranno di mantenere vivo il cantiere della speranza e del riscatto. Ma necessariamente i lavori rallenteranno, anche se siamo quasi in fondo. Le limitazioni, le chiusure che la grande epidemia ha provocato "incrociano" la storia del ponte da ricostruire, tra tensioni sindacali, paure umane, necessità di sicurezza, esigenze sanitarie. In verità qui, tra quei fasci di luce tricolori, nella notte nera della paura da coronavirius, dove la città spezzata si stava ricucendo lungo questo ponte di 1067 metri, 18 piloni e una valle da riscattare, le due vicende si incrociano veramente. Ed è difficile fare la somma delle due sofferenze, quella di Genova spezzata dal crollo e quella di Genova rattrappita come tutta l’Italia, come tutto il mondo, dall’epidemia con quel killer invisibile, sconosciuto, letale che ha stracciato la vita di tutti. E’ difficile sommare la pena di quella tragedia plastica del crollo di una autostrada in mezzo a una città, alla sua urbanizzazione, delle macerie, della catastrofe fisica delle auto nel vuoto. A questa invisibile della morte che striscia negli ospedali, nella strade, fuori dai portoni chiusi, in faccia alle mascherine dei passanti radi che si evitano in ogni angolo della città. Quando il buio arriva e copre tutto, la città dall’alto è ancora più cupa. Forse c’è qualche sirena in meno che rompa, con le lucine blù e il suo sibilo, buio e silenzio. Ma si sa che più in là il ponte è quasi tutto in piedi, c’è una luce accesa non solo metaforicamente. Lavorano in tanti e fanno sperare che un avvenire ci sia. Comunque.

di FRANCO MANZITTI