Fra i tanti modi per farsi male da soli, quello del Mes sembra rappresentare un caso di scuola. È già disponibile a un tasso d’interesse prossimo allo zero, inferiore a quello dello European Recovery Fund, e basterebbe questo per rendere incomprensibile la polemica. Ciò che la fa diventare lunare è la questione delle condizionalità, che nel caso del Mes richiedono solo che i fondi vengano destinati a interventi per la sanità e la scuola, priorità su cui il Governo italiano si è impegnato ad intervenire immediatamente.

Sullo ERF invece, le condizionalità sono più onerose di quanto in un tripudio di entusiasmo è stato annunciato. La Commissione avrà la responsabilità decisionale ultima sul piano presentato dall’Italia, ma dovrà passare attraverso l’approvazione del Consiglio ed è facile prevedere che l’esame lascerà poco spazio a furberie e sotterfugi. Il "freno di emergenza", per cui si è battuto Rutte, darà la possibilità di un ulteriore passaggio con il Consiglio Europeo, allungando la procedura e mettendo nelle mani di "frugali", e non solo, un bazooka di imprevedibile portata. Quando Paolo Gentiloni dice di non comprendere le motivazioni del Governo italiano, non fa che sottolineare l’ovvio: il Mes è disponibile subito; per il Fondo ci vorrà, se tutto va bene, almeno un anno. Ci siamo battuti per ottenere che l’approvazione del Consiglio avvenga a maggioranza qualificata, e non all’unanimità, nella convinzione non detta che sarà il grimaldello attraverso il quale impostare ragionamenti più "politici", con cui arrivare a uno dei tanti compromessi che segnano la vita comunitaria. Tutto giusto, ma la chiave starà nella credibilità delle nostre proposte. E qui, nella rincorsa fra chi, Bicamerali, Palazzo Chigi, tecnici, partiti, avrà il boccino del controllo, rischia di cascare l’asino.

Intendiamoci, il Fondo sarà approvato e i miliardi arriveranno, ma la bagarre sul Mes e il profluvio di dichiarazioni su detassazioni a tappeto, sussidi, quota 100 e via promettendo, ci renderà la vita inutilmente difficile. L’opposizione al Mes si basa su presupposti ideologici tetragoni alla verità dei fatti. Avvoltolati nella memoria della tragedia della Grecia, della troika e delle sue imposizioni, mai più – dicono i suoi detrattori – potremo tollerare di resuscitare un meccanismo perverso che porrebbe la nostra sovranità nelle mani di una tecnocrazia occhiuta e priva di legittimazione democratica. Si tratta di un fantasma, ma è duro a morire e, proprio perché emotivo e irrazionale, impervio alla realtà. Non conta che il contesto macroeconomico sia molto diverso, che le condizionalità praticamente non ci siano, che di troika non si parli più: è una bandiera e, come tutte, la si ama, la si difende e non si discute. Forse è vero che se al Mes fosse stato dato un altro nome, le cose sarebbero state più facili; ora è tardi e c’è solo da sperare che le urgenze di bilancio, e lo spettro di un autunno drammatico, ai fatti daranno finalmente ragione.

Ciò detto, Bruxelles è stata tutt’altro che la "fregatura" denunciata su fronti opposti da Salvini e Varoufakis. All’Italia arriveranno fondi indispensabili per la sua sopravvivenza; i 27 sono riusciti a riacciuffare per i capelli l’idea di una solidarietà condivisa; non ci sono gli eurobond, ma la possibilità per la Commissione di indebitarsi sul mercato è un passo verso una autonoma capacità finanziaria. Sono risultati importanti, ma non siamo dinanzi al "momento Hamilton" evocato troppo precipitosamente da alcuni. Alexander Hamilton poté trasferire il debito degli Stati nel bilancio dell’Unione perché c’era una volontà condivisa di dare carattere federale ai nascenti Stati Uniti. Questa volontà nell’Ue non c’è e rimangono al suo interno visioni contrastanti sul suo futuro.

L’ERF è una operazione "una tantum", che non prefigura il completamento dell’unione monetaria con la gamba economica e fiscale mancante. Il bilancio pluriennale 2021-27 ha portato tagli significativi ai programmi di maggior rilievo comunitario, da Erasmus alla ricerca, che il Parlamento Europeo si appresta a combattere. La deriva intergovernativa dei meccanismi decisionali dell’Ue è aumentata, a danno dell’autonomia della Commissione. E tuttavia, senza un tasso addizionale di integrazione comunitaria parlare di una Eurozona che evolva in una vera unione economica non ha senso, così come trascolora l’idea di dare carattere strutturale al concetto di solidarietà condivisa.

L’Europa ha saputo reagire a una sfida drammatica, ma il momento in cui dovrà decidere se diventare politicamente più integrata - con chi ci sta - o continuare sulla via di una razionalizzazione di mercato controllata dai governi, non è eludibile all’infinito. La Conferenza sul futuro dell’Europa voluta da Macron è come un fiume carsico, che appare e scompare, ma è il luogo giusto dove cominciare a farlo. La crisi ha dimostrato quanto la dimensione comunitaria sia fondamentale per l’Italia, aldilà delle ubbie sovraniste; chiedere a un governo diviso su tutto di farsi parte attiva di una riflessione che ci tocca direttamente sarebbe troppo, ma ascoltare seriamente dovrebbe essere possibile.

di ANTONIO ARMELLINI