L’approssimarsi del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari pone ineludibili interrogativi di merito "perché si vota per la Costituzione, non per un partito". Non bisogna, infatti, lasciarsi condizionare da tatticismi politici a favore o contro questa legislatura, il governo, etc. Insomma, il referendum sarebbe meglio non usarlo come mezzo per altre finalità. Approfondire il tema nel merito è un dovere civico, pur nella consapevolezza che le furoreggianti e opache lenti dell’antisistema deformano la visione. A tratti si rileva chiaramente che il dibattito è condizionato da una stagione in cui le spinte antiparlamentari e le critiche alla democrazia rappresentativa sono la cifra identitaria; salvo approdare poi, per eterogenesi dei fini, alla formazione di una molto ristretta casta con la vittoria del "Sì". Allora, quale può e deve essere l’auspicio? Credo che bisogna ricorrere a un rigoroso discernimento che guarda la complessità con "razionalità, laicità e rispetto reciproco". Un metodo che dovrebbe essere comune nella dialettica politica, troppo spesso merce sempre più rara per quanto non inedita. Evitando poi una riduttiva e impropria semplificazione, oggi molto rappresentata nel dibattito, in merito a contrapposte posizioni: riformisti vs benaltristi, innovatori vs conservatori. La riforma proposta riterrebbe di conseguire attraverso il solo taglio dei parlamentari un esemplare effetto: contemperare la riduzione dei costi della politica – sebbene ridotta ma ritenuta esemplare dai proponenti – con la migliore qualità dei parlamentari e la velocizzazione delle procedure legislative. È una riforma che sarebbe apprezzabile nelle intenzioni, ma decisamente limitata perché non si inserisce in una vera e propria, nonché auspicata, innovazione di sistema. È proprio questo il suo punto debole. Dalla sola riduzione nel numero dei parlamentari non si può, infatti, desumere, quasi fosse un automatismo, la migliore qualità e velocizzazione delle procedure che appartengono, viceversa, ad altri ambiti e categorie. Il quesito referendario risulta fortemente condizionato dalle altre riforme a tutt’oggi inattuate che, almeno per gli impegni presi, avrebbero dovuto accompagnarsi in un coerente parallelismo, e cioè: nuova legge elettorale, allineamento del Senato alla Camera per elettorato attivo e passivo, modifica della base regionale per il voto del Senato, riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica, aggiornamento dei regolamenti parlamentari. Queste ultime riforme sono, appunto, ritenute necessarie o utili sia da coloro che sono favorevoli che da quelli contrari alla riforma. È, infatti, la richiesta largamente rappresentata dalle forze politiche di procedere al complesso delle summenzionate riforme sta a significare proprio la necessità di una innovazione di sistema in cui la revisione del bicameralismo paritario dovrebbe essere un caposaldo. Al pari della revisione del Titolo V della Costituzione - in merito ai rapporti tra Stato ed enti locali - che tante inadeguatezze e confusioni sta palesando in questa stagione di pandemia. Su questo, purtroppo, si è preferito procedere con una visione a corto raggio, rimandando a un tempo successivo le altre riforme per quanto necessarie e urgenti per il miglior funzionamento del sistema e per una sostanziale innovazione che possa davvero dirsi tale. Addentrandosi sempre più nell’analisi del merito, non possono essere sottaciuti alcuni dei principali interrogativi che emergono dal prossimo referendum confermativo. Siamo davvero sicuri che con la riforma proposta si facilita l’attività legislativa parlamentare che così risulterebbe maggiormente efficiente? Che il bicameralismo perfetto, attualmente in vigore, sarà modificato? Che davvero si riducono significativamente i costi della politica? Che si favorisce un migliore rapporto tra territori e rappresentanti parlamentari? E, ancora, quando e quale nuova legge elettorale? E poi, una nuova legge elettorale – legge ordinaria – potrà garantire la rappresentanza plurale? In particolare, chi è a favore del "Sì" sostiene, tra l’altro, che non ci sarebbero conseguenze negative anzi il Parlamento avrebbe la possibilità di funzionare meglio e legiferare più rapidamente. Chi, invece, supporta le ragioni del "No" rileva – nel contesto di un’ampia argomentazione – che intere comunità non avranno rappresentanza, con il conseguente aumento delle disuguaglianze territoriali tra nord e sud, aree urbane e altre. Le singole questioni sono state approfonditamente analizzate nell’Appello per il No sottoscritto da numerosi costituzionalisti. In sintesi, la riforma:

1) Svilisce il ruolo del Parlamento e ne riduce la rappresentatività senza offrire vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche né su quello del risparmio della spesa pubblica;

2) Presuppone che la rappresentanza nazionale possa essere assorbita nella rappresentanza di altri organi elettivi (Parlamento europeo, Consigli regionali, Consigli comunali, etc.) contro ogni evidenza storica e contro la giurisprudenza della Corte costituzionale;

3) Riduce in misura sproporzionata e irragionevole la rappresentanza di interi territori;

4) Non eliminerebbe ma, al contrario, aggraverebbe i problemi del bicameralismo paritario;

5) Appare ispirata da una logica "punitiva" nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo dell’istituzione rappresentativa.

LUCIO ROMANO