Governare richiede una dose massiccia di realismo, quindi tutti quelli che contestano le misure adottate nelle ultime ore dall’esecutivo stentano poi a trovare uno schema di lavoro alternativo. Diciamo dunque la verità una volta per tutte: non esiste un Modello Italia (siamo penultimi per tasso di letalità – cioè numero decessi su numero contagiati - nella classifica dei primi 20 paesi al mondo per totale positivi, battuti solo dal Messico, fonte Il Sole 24 Ore), siamo tra i paesi con peggiori previsioni di crollo del PIL su scala mondiale, conosceremo una escalation del debito pubblico che condizionerà i governi dei prossimi 30 anni almeno e abbiamo sprecato l’occasione dell’estate per rafforzare in modo significativo il nostro sistema sanitario. Detto ciò stanno male anche gli altri, almeno i nostri vicini (Spagna, Francia, Belgio e anche Germania e Gran Bretagna) quindi i problemi non sono solo nostri. È però di tutta evidenza il fallimento totale del sistema di tracciamento impostato a livello nazionale, di cui è emblema la malinconica app IMMUNI che giace silenziosa (e quindi inutile) nei nostri telefonini mentre il passa parola ci informa di amici e conoscenti raggiunti dal virus.

In queste condizioni è quindi chiaro che il governo fa quello che può (e che deve) al punto in cui siamo giunti: carica ancora una volta sui comportamenti individuali (di cui alla lista dei divieti in procinto di scattare) il peso pressoché totale di tenere sotto controllo la pandemia. Siccome però siamo a questo punto (e prima che vada in default l’intero SSN) è inutile sperare in altri strumenti: o non esistono o sono troppo aleatori e lenti nella loro efficacia. Per quanto mi riguarda quindi non posso che condividere l’impostazione oggi data dal premier Conte, avendo però cura di chiarire che non si tratta affatto di un passo in avanti, bensì di un doloroso arretramento "tattico" resosi necessario dall’andamento generale del conflitto, andamento che ci vede in precipitosa ritirata dopo i fuochi fatui estivi. Allo stato dunque chiudiamo tutto ciò che è socialità (dopo le 18.00), molto di ciò che è cultura (cinema, teatri), molto sul versante dello sport (palestre) e già un po’ della scuola, poiché si aumenta in modo significativo la quota di lezioni a distanza per i più grandi.

Lo facciamo sperando che basti, ma nel governo pochi si fanno illusioni su questo punto. Nella sua comunicazione di oggi il premier ha cambiato tono (e ha fatto bene), perdendo molta della baldanza del passato. Ha anche abbandonato gli orari sbagliati (e ansiogeni) di questa primavera, parlando a metà giornata (spero faccia così di qui in avanti). Per rendere però accettabile tutto ciò occorre da parte del governo uno scatto poderoso e visibile, di cui per ora vi sono tracce modeste, contradditorie e, a volte, persino irritanti. Occorre cioè in primo luogo una fulminea iniezione di risorse economiche a tutte le categorie coinvolte, usando ogni strumento disponibile (compreso quello fiscale). Chi vede l’attività soffocata per effetto di provvedimenti governativi deve esser risarcito alla velocità della luce, pena il disastro nazionale. A ciò si deve aggiungere uno sforzo visibile sul fronte sanitario, fatto di misure concrete.

Faccio un esempio: provi chi non è categoria a rischio a trovare un vaccino influenzale in farmacia e poi ne riparliamo (parlo per esperienza diretta). Vorrei cioè vedere consultori medici nelle piazze, vorrei vedere camper diagnostici in giro per le strade, vorrei vedere un servizio di assistenza a domicilio di cui si parla da mesi ma che è tale solo sulla carta. Poi c’è un tema più politico, ma non per questo meno importante. La maggioranza è solida perché inamovibile, ma politicamente è in stato comatoso. Va dunque rianimata e condotta a elaborare un programma preciso (verso Bruxelles in primo luogo) per la restante parte della legislatura. Allo scopo sarebbe a mio avviso utile (in tempi e modi concordati e ragionati) varare un nuovo governo che sia espressione proprio di quei patti rinnovati. Anche perché navigando a vista prima o poi si va a sbattere.

ROBERTO ARDITTI