di Matteo Forciniti

Proibito usare l’espressione negrito nella sua accezione affettuosa e mai intesa come termine dispregiativo. Questa la sentenza della Federcalcio inglese che ha punito con tre turni di squalifica e 100mila sterline di multa Edinson Cavani per aver usato la parola incriminata rispondendo a un commento di elogio su Instagram giudicandolo però razzista.

Gracias negrito aveva scritto l’attaccante uruguaiano del Manchester United a un suo amico per ringraziarlo dei complimenti ricevuti dopo una partita in cui aveva segnato una doppietta.

Secondo la Lega inglese si è trattato di un commento “offensivo e improprio” oltre che di una “violazione aggravata” perché “includeva riferimenti, espliciti o impliciti, al colore e/o alla razza e/o all’origine etnica”.

Non è necessario aver vissuto molto tempo in Uruguay -dove abbonda il soprannome negro o negra senza alcuna malizia- per capire che la decisione dei censori della federazione inglese è priva di ogni fondamento perché invoca il razzismo dove questo non esiste: risponde più che altro alla dittatura del politicamente corretto imperante ormai ovunque e alimentato dai commenti di odio sui social.

Seguendo questo criterio liberticida molte parole del nostro dizionario dovrebbero essere cancellate con il nobile scopo di combattere il problema del razzismo: per esempio tano, (da napolitano) il soprannome con cui viene storicamente identificato l’italiano immigrato in Uruguay nell’ottica di un’origine italiana comune a quasi la metà della popolazione uruguaiana. Certamente in questo termine c’è una componente etnica che identifica la persona in quanto italiano ma questo può bastare per lanciare accuse di razzismo?

Restando nell’ambito calcistico è doveroso ricordare i soprannomi di due figure leggendarie che hanno fatto grande la nazionale uruguaiana nei suoi trionfi epici in giro per il mondo: “La maravilla negra”, José Leandro Andrade, uno dei protagonisti del ciclo d’oro della Celeste tra gli anni venti e trenta, e poi ancora Obdulio Varela detto “El negro jefe”, trascinatore e leader indiscusso della squadra artefice del Maracanazo con la vittoria dei Mondiali in casa del Brasile nel 1950.

In difesa dell’ex attaccante del Napoli e del Palermo si è schierata a gran voce l’Accademia della Lingua uruguaiana, l’equivalente della nostra Crusca: “La Federcalcio inglese ha commesso una grave ingiustizia e ha dimostrato la sua ignoranza in materia linguistica e in particolare dello spagnolo” si legge nel comunicato dell’Accademia che ha provato a chiarire: “Le parole che si riferiscono al colore della pelle, al peso e ad altre caratteristiche fisiche sono usate di frequente tra amici e parenti in America Latina, specialmente nel diminutivo. In quel contesto sono espressioni di tenerezza e sono spesso utilizzate indipendentemente dall’aspetto del soggetto”.

Anche i colleghi dell’associazione calciatori dell’Uruguay si sono scagliati contro la decisione della Football Association giudicandola “una squalifica discriminatoria nei confronti della cultura e dello stile di vita uruguaiani”. Il loro invito è quello di rivedere la decisione, frutto di “ignoranza e disprezzo verso una visione multiculturale del mondo”.