di Antonio Misiani

L’Italia non è un Paese per giovani per tanti aspetti. Un elevato abbandono scolastico. Una diffusione della povertà nettamente superiore alla media. La precarietà lavorativa come condizione normale. Un tasso di disoccupazione altissimo e, cosa ancora più grave, il triste record europeo (secondo Eurostat) dei cosiddetti NEET: le ragazze e i ragazzi tra 18 e 29 anni che non lavorano, non cercano lavoro e non sono impegnati in percorsi di istruzione. Quasi uno su quattro in Italia, una vera e propria bomba sociale.

La crisi Covid ha peggiorato ulteriormente questa situazione. La necessità di mandare milioni di studenti in didattica a distanza ha escluso dall’istruzione per molti mesi centinaia di migliaia di ragazzi, dato che secondo un report ISTAT quasi uno su otto di chi ha tra 6 e 17 anni di età non ha un computer o un tablet in casa. La crisi economica ha investito innanzitutto i giovani: a marzo 2021 sempre secondo ISTAT il numero di occupati di età compresa tra 15 e 24 anni era inferiore del 7,3 per cento rispetto ad un anno prima, contro il 2,5 per cento medio complessivo.

In un contesto di indebolimento delle politiche pubbliche rivolte ai giovani (l’Italia è al penultimo posto tra i paesi OCSE per la percentuale di spesa pubblica dedicata all’istruzione), l’ascensore sociale si è via via bloccato e le prospettive di vita delle ragazze e dei ragazzi italiani sono diventate sempre più dipendenti dalla condizione economica delle famiglie di appartenenza. Un problema ancor più grave in un Paese caratterizzato da una distribuzione della ricchezza sempre più diseguale: un recente studio degli economisti Acciari, Alvaredo e Morelli evidenzia come tra il 1995 e il 2016 la quota di ricchezza detenuta dall’1 per cento più ricco degli italiani sia cresciuta dal 16 al 22 per cento del totale, mentre la “fetta” del 50 per cento più povero sia crollata dall’11,7 al 3,5 per cento del totale.

Restituire opportunità e autonomia alle giovani generazioni del nostro Paese è un lavoro di lunga lena. Serve una strategia articolata, fatta di un massiccio investimento nell’istruzione e nella ricerca, di un mercato del lavoro con meno spazi per la precarietà e lo sfruttamento, di politiche per la casa che aiutino i giovani a comprare casa ma anche a sostenere le spese per l’affitto.

La dote per i giovani che raggiungono la maggiore età proposta da Enrico Letta – 10 mila euro vincolati a spese di istruzione, lavoro e abitazione e attribuiti ai giovani provenienti da famiglie a reddito basso e medio, in relazione ad una soglia ISEE - può essere uno strumento utile per questa strategia. Non è “l’utopia vagamente totalitaria” o “la super-mancia elettorale” di cui parla in modo inutilmente sprezzante Alessandro Barbano. E’ una proposta concreta e praticabile. L’unica utopia che vorremmo realizzare è mettere i figli dei disoccupati o dei precari nella condizione di poter scegliere con maggiore autonomia i propri percorsi di vita una volta diventati maggiorenni. Scegliere! Di proseguire il percorso di studi dopo la scuola dell’obbligo senza gravare sui genitori, o di avviare un’attività autonoma, o di andare a vivere da soli. Scegliere con la stessa libertà che hanno i ragazzi e le ragazze che hanno la fortuna di essere nati in famiglie benestanti.

La dote costerebbe, ma decisamente meno dei 6 miliardi di cui hanno scritto erroneamente alcuni commentatori. Noi abbiamo ipotizzato di attribuirla alla metà dei 560 mila ragazzi che ogni anno compiono 18 anni, per un costo di 2,8 miliardi di euro annui. Dove trovare queste risorse? Chiedendo un contributo all’1 per cento più ricco degli italiani, secondo una logica di aiuto intergenerazionale. Non con l’istituzione di una nuova tassa patrimoniale – che il Pd non condivide – ma avvicinando la struttura della tassa di successione ai livelli degli altri Paesi europei. Come hanno ricordato pochi giorni fa Tito Boeri e Roberto Perotti in un loro articolo, oggi l’Italia è un vero e proprio paradiso fiscale per eredità e donazioni. L’aliquota massima di tassazione delle eredità tra genitori e figli in Italia è il 4%; in Germania il 30%; in Spagna il 34%; in Gran Bretagna il 40%; in Francia il 45% (fonte: Ernst & Young). Il gettito, di conseguenza, vede l’Italia agli ultimi posti: 800 milioni da noi, 14 miliardi in Francia. Rivedere le aliquote per le grandi successioni (secondo noi, portando al 20 per cento l’aliquota per le successioni oltre i 5 milioni di euro) non è l’esproprio proletario di cui straparlano senza senso del ridicolo i politici di destra e i commentatori “liberali” alle vongole. Vuol dire cambiare un assetto iniquo e sbagliato, raccogliendo le sollecitazioni di tanti economisti e organizzazioni internazionali (da ultimo l’OCSE, che pochi giorni fa ha ricordato che “La tassa sulle successioni può essere uno strumento importante per affrontare la diseguaglianza, in particolare nell’attuale contesto”). Naturalmente, inserendo questa scelta nel quadro di una riforma fiscale complessiva che, nella visione del Pd, deve portare ad una riduzione e ad un riequilibrio del carico complessivo in favore dei redditi bassi, del ceto medio e dei giovani, salvaguardando la progressività e migliorando l’equità verticale e orizzontale del sistema; all’abbattimento dell’evasione e dell’erosione fiscale; alla riorganizzazione in senso ambientalista del fisco in coerenza con gli obiettivi di riduzione delle emissioni sottoscritti dall’Italia e dall’Unione Europea.