DI PIETRO SALVATORI

Come dei capponi invitati al pranzo di Natale, tutti i generali e i colonnelli del Movimento 5 stelle saranno invitati a lavorare alacremente al proprio funerale politico nella costruzione del nuovo Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. La strada è lunga, di ripensamenti, correzioni, inversioni a U è lastricata la storia M5s almeno tanto quanto lo è stata di buone intenzioni, ma se il veto di Beppe Grillo sulla deroga dei due mandati non cadesse un'intera classe dirigente verrebbe spazzata via.

È del tutto comprensibile che l'ex premier rimandi lo scioglimento del nodo a chissà quando. Il perché lo spiega bene Stefano Patuanelli intervistato da La Stampa: "Tutti i portavoce sono in conflitto di interesse". Scegliere in un senso oppure nell'altro significa per Conte inimicarsi metà del partito, con le conseguenze immaginabili, non ultima la forte contrazione degli incassi del partito (da aprile gli eletti sono tenuti a versare 1000 euro), le cui casse al momento piangono.

Ma incombe la spada di Damocle di Grillo, e l'ombra della mannaia sta già facendo sobollire i gruppi, in rivolta di fronte alla prospettiva di lavorare di fatto alla propria defenestrazione.

È paradossalmente proprio Patuanelli uno dei pochissimi che sfuggirebbe al taglio, in virtù della sua consiliatura al comune di Trieste prima dell'approdo al Senato nel 2018, in virtù della formidabile invenzione del "mandato zero", la deroga che mette al riparo chi è stato eletto nelle città, la stessa su cui ha fatto leva Virginia Raggi per forzare la propria candidatura per un bis al Campidoglio. Con il ministro dell'Agricoltura si salverebbe ben poco delle figure apicali del Movimento. Avrebbe agio Ettore Licheri, presidente dei senatori, non il suo predecessore Gianluca Perilli, alle spalle un giro di giostra alla regione Lazio. Con loro, ovviamente, supererebbe il taglio Alessandro Di Battista, da sempre fermo sostenitore del tetto dei due mandati, che dal Sudamerica ieri ha lanciato i propri strali contro i colleghi che peroravano la causa della "salvaguardia delle competenze".

Dietro di loro, il nulla. Verrebbe decapitata l'intera compagine ministeriale. Fuori Luigi Di Maio, che a 36 anni dovrebbe dire addio alla propria carriera politica, fuori Fabiana Dadone, fuori Federico D'Incà. Sono tutti "ragazzi meravigliosi", così il fondatore definì la classe 2013, i primi sbarcati tra Camera e Senato, verso i quali, chi più e chi meno, oggi registra per lo più insofferenza, ritenendoli schiacciati sul Palazzo, caduti in quel professionismo della politica che è sempre stato considerato alla stregua di una mala pianta da estirpare e che per il garante ormai da tempo infesta il suo giardino.

Dopo aver rifiutato la candidatura a sindaco, Roberto Fico dovrebbe forzosamente tornare nella sua Napoli. Con lui tutti i vertici parlamentari. Out le due vicepresidenti, Maria Edera Spadoni a Montecitorio e Paola Taverna a Palazzo Madama, fine dei giochi anche per il capogruppo alla Camera Davide Crippa e per il suo predecessore Francesco D'Uva, oggi questore, che verrebbe accomunato nella sorte al questore del Senato, Laura Bottici, anche lei alla seconda legislatura.

Il taglio sarebbe implacabile anche con le figure che hanno acquistato peso e notorietà durante gli ultimi mesi del Conte 2. Fine dei giochi per Alfonso Bonafede, giù dalla giostra Nunzia Catalfo a cui si deve il reddito di cittadinanza, fuori l'ex sottosegretario Stefano Buffagni, un precedente in Lombardia prima di trasferirsi armi e bagagli, si salverebbero i soli Vincenzo Spadafora e Lucia Azzolina.

Nulla da fare anche per Vito Crimi, già al ministero dell'Interno, il reggente ha due mandati alle spalle, iniziate con il primo incarico da capogruppo (nella scorsa legislatura ruotavano ogni tre mesi), così come la collega Roberta Lombardi, oggi in consiglio regionale nel Lazio. Carlo Sibilia, che il posto al Viminale lo ha conservato anche con Draghi, dovrebbe cedere il passo, con lui Manlio Di Stefano, che ricopre lo stesso incarico ma al ministero degli Esteri, con lui Laura Castelli, che da Torino è arrivata in Parlamento 8 anni fa e Giancarlo Cancelleri, sottosegretario alle Infrastrutture, mai eletto a Roma ma con due mandati alle spalle da onorevole dell'assemblea siciliana, l'ultimo dei quali interrotto proprio per la chiamata al governo (altro tabù, quello del completamento dei mandati elettivi, andato in frantumi proprio con il suo caso).

Un repulisti più che un ricambio, auspicato da Grillo in funzione del rinnovamento, per togliere incrostazioni e rendite al futuro partito di Conte, che pur con questi qui sarà costretto a fare i conti almeno fino alle prossime elezioni. "Siete morti!", urlava con garbo il fondatore ai giornalisti che incontrava per la sua strada. Un grido sinistro la cui eco rimbalza oggi negli uffici dei pentastellati di Palazzo.