Quella dell’ex premier Conte è una leadership che nasce debolissima per almeno due motivi: da un lato l’equilibrio raggiunto col fondatore Grillo è fragilissimo, si regge su molte ambiguità e ad ogni tornante complicato il dissidio tra i due è destinato a riesplodere come una bomba ad orologeria; dall’altro è di tutta evidenza che Di Maio, attraverso la sua capacità di mediazione, si è di fatto riappropriato del ruolo di sostanziale capo politico del Movimento, con tutte le incognite che questo rappresenta per lo stesso Conte.

Vedremo presto, a partire dalle votazioni sul ddl Zan, e soprattutto dall’atteggiamento in Parlamento sul tema della giustizia, se le contraddizioni di un Movimento 5 Stelle in teoria riappacificato riesploderanno subito o se prevarrà l’esigenza di evitare una nuova resa dei conti così ravvicinata. In ogni caso il fatto che la prima mossa del presidente pentastellato in pectore sia stata la sconfessione pubblica dell’operato dei suoi ministri, e dell’accordo da loro sottoscritto sulla riforma della giustizia, la dice lunga sulle difficoltà della coabitazione al vertice del Movimento.

Certamente appare ridicolo un partito che ora Grillo si dice pronto a rilanciare con quello stesso Conte che aveva giudicato solo qualche settimana fa come un personaggio totalmente incapace di risolvere i problemi del Movimento 5 Stelle perché «non ha né visione politica, né capacità manageriali», né «esperienza di organizzazioni», né «capacità di innovazione». E meno male. È probabile che d’ora in avanti nella maggioranza aumenteranno le fibrillazioni: su Mario Draghi penderà la spada di Damocle del rancoroso dissenso dell’ex avvocato del popolo che farà di tutto per creare problemi al Governo.

Anche la posizione di Enrico Letta è destinata a farsi via via più complicata. Come farà il segretario del Pd a sostenere l’alleanza con Conte proprio mentre quest’ultimo ribadisce la sua intenzione di affossare la riforma della giustizia in Parlamento e, più in generale, è pronto a un rapporto conflittuale con il presidente del Consiglio? Tuttavia, i margini di manovra di “Giuseppi” appaiono ridotti dal fatto che gli altri due leader, Grillo e Di Maio, sembrano avere invece tutta l’intenzione di stabilizzare l’Esecutivo ed evitare pericolose avventure.

E qui torniamo al punto di partenza: in una situazione in cui il leader “di diritto” dipende dagli altri due capi “di fatto”, a perdere la capacità d’incidere sui processi decisionali sarà il partito. D’ora in poi, infatti, in ogni passaggio delicato il M5S dovrà prima trovare un equilibrio all’interno della sua triarchia, e solo dopo potrà provare a far valere la sua posizione - già così faticosamente mediata - in Consiglio dei ministri e in Parlamento. Un mesto tramonto.

DALLA REDAZIONE