di Alberto Flores d'Arcais

L'11 settembre 2001 Bruce Eagleson, 53 anni, vicepresidente del Westfield Group (centri commerciali) era da poco entrato nella sala riunioni al 17esimo piano della South Tower del World Trade Center, quando il volo 11 dell'American Airlines, dirottato dai terroristi di al Qaeda e guidato da Mohammed Atta si era schiantato sulla torre gemella, la North Tower. Erano le 8 e 46 del mattino, un giorno di sole di fine estate ed Eagleson - che aveva accettato con piacere il breve incarico di lavoro, pochi mesi, lontano dalla sua casa in Connecticut - si accorse subito della gravità di quanto stava accadendo. Chiamò il fratello, la moglie e poi il figlio, disse loro di non preoccuparsi e iniziò ad organizzare l'evacuazione dei presenti. Quando alle 9 e 03 il secondo aereo (United Airlines 175) colpì la torre sud, parlò di nuovo con il figlio maggiore Brett che lo esortava a scappare in tutta fretta dicendogli che avrebbe finito di aiutare gli altri e poi si sarebbe messo al sicuro. Alle 9 e 59 la South Tower collassò (per prima) mentre Bruce Eagleson stava ancora aiutando qualcuno a mettersi in salvo.

Suo figlio Brett aveva vent'anni e da allora è in prima fila, con la madre e con migliaia di altri familiari delle vittime del 9/11, nel chiedere al governo degli Stati Uniti di rendere pubblici i documenti 'top secret' che riguardano l'eventuale coinvolgimento dell'Arabia Saudita nel più grande attacco terroristico della storia. "Abbiamo avuto incontri con ex presidenti. Abbiamo inviato lettere. Abbiamo interrogato i funzionari del Campidoglio. Abbiamo scritto migliaia di lettere, dato centinaia di interviste a stampa e tv. Abbiamo fatto tutto e ancora non abbiamo avuto niente".

Quello dei rapporti tra Stati Uniti e la monarchia assoluta saudita, prima e dopo l'11 settembre 2001, è l'unico capitolo che a vent'anni di distanza non è ancora stato chiarito, dando in due decenni nuova linfa a speculazioni, fake news e complottismi di ogni sorta. In un tribunale di New York è in corso una lunga causa intentata dalle famiglie delle vittime, convinte che l'Arabia Saudita sia responsabile di quell'attacco e che debba essere chiamata pubblicamente a pagarne le conseguenze. Le stesse famiglie che hanno diffidato per mesi Joe Biden dal presentarsi a New York per l'anniversario (il presidente Usa è stato ovviamente a Ground Zero) ottenendo finalmente il 3 settembre scorso un 'ordine esecutivo' della Casa Bianca per declassificare e rendere pubblici i documenti (lo aveva peraltro promesso in campagna elettorale).

Quando saranno pubblici ancora non si sa. Da vent'anni la posizione della Casa Bianca non era mai cambiata, chiunque sedesse nello Studio Ovale (George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump). L'ultimo resoconto ufficiale sull'argomento è un rapporto della Commissione d'inchiesta sull′11 settembre che risale al 2004 in cui si dichiarava che non c'erano "prove che il governo saudita come istituzione o alti funzionari sauditi abbiano finanziato individualmente i dirottatori". Il rapporto aggiungeva che c'era "una probabilità che enti di beneficenza con una significativa sponsorizzazione del governo saudita abbiano deviato i fondi ad al Qaeda".

I familiari delle vittime hanno trovato un alleato nel senatore democratico Richard Blumenthal, primo sostenitore di una legge al Congresso che permettesse alle famiglie di citare in giudizio l'Arabia Saudita (le legge federale impediva la causa civile contro un paese sovrano), che non ha esitato a schierarsi contro Obama per annullare il veto (l'unico in otto anni alla Casa Bianca) con cui il primo presidente afro-americano si era opposto alla legge. Ottenendo un successo bipartisan con rari precedenti: il Senato per 97 a 1 ha annullato il veto di Obama. 

La decisione di Biden segna una decisa svolta, anche nei confronti della Casa Bianca di Trump il cui allora ministro di Giustizia (William Barr) nel 2019 aveva sentenziato che i documenti "dovrebbero rimanere per sempre sigillati per una questione di sicurezza nazionale". Va avanti anche la causa a New York, dove sono stati interrogati (sotto giuramento) diversi ex funzionari sauditi, anche se lo stesso tribunale ha secretato gli interrogatori perché "troppo sensibili per la divulgazione". Il governo saudita continua a negare ogni collegamento ma diversi documenti pubblici rilasciati negli ultimi due decenni, compresi quelli della Commissione 11 settembre, hanno esposto in dettaglio numerosi coinvolgimenti sauditi, pur senza mai provare la diretta la complicità del governo. Un esempio? I primi dirottatori ad arrivare negli Stati Uniti, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, furono ricevuti e assistiti da un cittadino saudita nel 2000. Omar al-Bayoumi, che li aiutò a trovare e ad affittare un appartamento a San Diego, aveva legami con il governo saudita ed era "attenzionato" dal Fbi. 

Il Bureau ha condotto una propria, lunga indagine, l'Operation Encore, che ha tracciato altri legami stretti tra dirottatori e governo saudita. L'ex agente Stephen Moore in una dichiarazione del 2017 ha sostenuto che che al-Qaeda non avrebbe potuto mandare Hazmi e Mihdhar negli Stati Uniti "senza una struttura di supporto in atto" e che "il personale diplomatico e di intelligence dell'Arabia Saudita aveva consapevolmente dato supporto a due dei dirottatori".

Vent'anni dopo i rapporti tra Stati Uniti e il suo fedele alleato nel mondo arabo sono a un crocevia. All'indomani degli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono si era creata negli Usa una vera e propria lobby (think-thank, opinionisti, ex funzionari governativi ed ex diplomatici) impegnati a difendere la natura 'speciale' della relazione Usa-Arabia Saudita come necessita di un presunto accordo 'petrolio in cambio di sicurezza' che sarebbe iniziato addirittura nel famoso incontro del 1945 tra il presidente Franklin D. Roosevelt e il re saudita Abdul Aziz a bordo della USS Quincy nel canale di Suez. In realtà la questione 'petrolio in cambio di sicurezza' è diventata dibattito pubblico solo nel 2002/2003, a ridosso dell'invasione Usa in Iraq. Americani e sauditi hanno lavorato per anni a stretto contatto, ma il vulnus 11 settembre non è mai scomparso del tutto, nonostante la rimozione della "vecchia guardia" dei principi sauditi che guidava allora il regno. Negli ultimi dieci anni i rapporti si sono raffreddati, prima a causa delle primavere arabe (Riad ha vissuto con grandi timori l'abbandono di Mubarak in Egitto da parte degli Usa) poi per il dialogo segreto Usa-Iran nel 2012-2013. L'ambiguità di Trump nel conflitto con il Qatar, la campagna militare a guida saudita in Yemen, l'uccisione dell'editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi all'interno del consolato saudita di Istanbul hanno fatto il resto. Toccherà adesso a Mohammed bin Salman, che era solo un adolescente quando ci furono gli attacchi dell′11 settembre, decidere cosa fare dei rapporti con gli Usa.